Regia di Michael Haneke vedi scheda film
Il primo Haneke ironico. Ora forse anche i detrattori del regista austriaco dovranno esimersi dal parlare della gratuità dell' "effetto Haneke", del suo sguardo entomologico e di tutte le ovvietà che sono state dette nell'arco di questi 30 anni di Cinema che ci ha regalato. In Happy End si raggiunge il non plus ultra, anche se Amour rimane forse un capolavoro di equilibri mai più raggiungibili.
Happy End parla dell'inadeguatezza della forma-Cinema tout court, e dimostra con tanto di argomentazioni come sia inadeguato porsi troppi problemi. Avvengono tantissime cose in Happy End, ma non sono eventi giustificabili, né da un punto di vista meramente sociologico (come mai è stato in Haneke) né dal punto di vista del semplice assurdo che da sempre innerva la sua cinematografia (il Caso nei primi film, il puramente irrazionale nelle opere di mezzo, la Storia nel Nastro bianco e il quotidiano in Amour). E non sono neanche eventi che semplicemente accadono, e di cui Haneke mostra la pura presenza. Qui si tratta di come anche il Cinema stesso sia grottesco. La cinepresa del regista austriaco si immobilizza attonita, metallizza le superfici, congela le luci, annulla le musiche, appiattisce la diegesi: non rinuncia, insomma, alla sua abituale grammatica filmica. Ma in Happy End si presenta come autoparodia di sé stessa. Sarebbe un errore prendere qualcosa sul serio, in Happy End. Se è il Cinema che fallisce, come si può pensare di prendere qualcosa come esatta, coerente, precisa?
Haneke è qui come non mai ellittico. Non rinuncia alla tensione che sempre ha caratterizzato le sue opere - in cui siamo sempre in attesa di un evento traumatico - ma qui porta l'esplosione di quella tensione al fuoricampo, a uno stacco di montaggio che può essere l'istantaneo campo/controcampo come anche un salto temporale estremo e non immediatamente leggibile. In Happy End siamo sempre in attesa, ma rimane solo il fallimento (bunueliano) di questa attesa, come se ci trovassimo di fronte a un "Haneke potenziale", che non si esprime, che non attacca. Non ha più motivo di attaccare.
A voler forzare le cose, Haneke è proprio lo sguardo della giovane Eve, la tredicenne potremmo dire protagonista del film. Il suo è uno sguardo autodistrutt(iv)o, esattamente come lo sguardo di Haneke, e tramite un continuo filtro si pone acritico rispetto al reale. Le immagini finali sono eloquenti al riguardo: qualsiasi costrutto formale è rotto, qualsiasi parvenza di eleganza andata a farsi benedire, rimane solo ciò che è sgraziato, grottesco, irreale, filtrato. Happy End è il primo Haneke ironico, e l'ironia appare come il più naturale approdo di qualsiasi nichilismo, ostentato o meno che sia.
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