Regia di Michael Haneke vedi scheda film
In un’epoca in cui le visioni cinematografiche si susseguono senza lasciare spazio a un minimo di riflessione i film di Michael Haneke mantengono intatti i riti collettivi collegati alla usufruizione dell’opera filmica. Quasi che l’austerità e il rigore del regista austriaco finisse per spaventare lo spettatore, obbligandolo a uniformarsi alle tempistiche del suo cinema. Le quali in “Happy End” non riguardano solamente il rapporto tra tempo e immagine ma contemplano pure la relazione tra l’intreccio e la sua logica, quest’ultima ricercata quando si tratta, come in questo caso, di trovare un denominatore alle azioni poste in essere dai molti personaggi che entrano ed escono dalle inquadrature.
A tal proposito possiamo aggiungere che la frammentazione narrativa è ciò di cui si accorge primariamente lo spettatore di “Happy End”, sbalzato com’è da un personaggio all’altro e soprattutto da un’ azione all’altra secondo un disegno che Haneke si premura di nascondere sotto la quotidianità decadente e banale di una facoltosa famiglia della borghesia francese di stanza a Calais. Se l’andamento continuamente interrotto e il carosello dei punti di vista agevola il depistaggio del regista, la discontinuità con cui procede il film potrebbe essere il modo - invero efficace - con cui l’autore fa “a pezzi” i legami famigliari e il bon ton attraverso il quale soprattutto gli adulti cercano di coprire egoismo e anaffettività. La cattiveria si fa strada con il passare dei minuti alla pari delle rivelazioni che portano a galla inquietanti segreti ma a differenza di altre volte la violenza - più psicologica che materiale - assume toni beffardi per arrivare al concitato finale in cui la drammaticità del momento è resa con pose da slapstick comedy. Più che una svolta nel cinema di Haneke “Happy End” potrebbe esserne al massimo una variazione sul tema, tanto più rinnovata è la fede nell’apparato teorico che lo sostiene e, nella fattispecie, nella capacità delle immagini di portare a galla menzogne e infingimenti (attraverso il cellulare della giovane Eve e nel pc di suo padre, interpretato da Mathieu Kassovits). Haneke continua a dirci che è lì e non agli uomini che bisogna rivolgersi se si vuole guardare in faccia la verità del mondo. Questa volta però l’affermazione non riesce come altre volte a entrare in dialettica con il fuori campo rappresentato dagli immigrati dei campi profughi di Calais, chiamati con la loro problematica esistenza a fare da contraltare a quella piena di possibilità che viene offerta al consesso famigliare guidato da un disincantato e stanco J Louis Trintignant, patriarca dell’inquietante sodalizio. I discorsi sull’Europa in via d’estinzione - superata dal coraggioso vitalismo dei più bisognosi - sono supportati da figure simboliche (per esempio il contrappasso della scena finale in cui il mare diventa testimone e insieme presagio di ciò che verrà) non così efficaci nel trasfigurare la contingenza delle immagini. Da qui la sensazione di aver assistito a un episodio meno nobile della straordinaria filmografia del grande cineasta.
(icinemaniaci.blogspot.it)
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