Regia di Franco Piavoli vedi scheda film
Il nascere si ripete
di cosa in cosa
e la vita
a nessuno è data
in proprietà
ma a tutti in uso.
[da Lucrezio - De Rerum Natura]
Il lungometraggio d'esordio (e suo capolavoro assoluto) del bresciano Franco Piavoli dopo una carriera ventennale divisa tra la realizzazione di cortometraggi (girò il suo primo documentario, Stagioni, nel 1961) e l'insegnamento in un istituto tecnico, prodotto dalla 11 Marzo Cinematografica di Silvano Agosti e presentato con successo al Festival di Venezia: dedicato dal regista (che in un tour de force virtuosistico si occupa anche della sceneggiatura, della fotografia e del montaggio del film) alla moglie Neria Poli (unico membro della troupe a coadiuvarlo durante le riprese), girato in due anni "tra gli alberi, i fiori e gli animali della Val Bruna" (tra Brescia e Mantova) e aperto da una citazione di Lucrezio, Il pianeta azzurro è molto più di uno straordinario documentario naturalistico: è canto elegiaco, poema sinfonico-visivo, idillio pastorale, ode sublime all'armonia e alla purezza, metafora dell'esistenza, cronaca del ciclo vitale delle stagioni e della natura, dalla nascita alla morte, è un giorno (o un anno? O un eterno ripetersi?) nella vita dell'uomo e dell'ambiente che lo circonda, è sguardo poetico, occhio rivelatore, brezza da respirare a pieni polmoni, è profumi e colori, Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli, è contemplazione estatica, vivisezione chirurgica del dettaglio, malinconia e romanticismo, gioia e tragedia, è il fascino di un pianeta che vive. Un'opera stupefacente per raffinatezza stilistica e resa espressiva, partorita per chissà quale arcana magia nel panorama stagnante del cinema italiano di inizio anni Ottanta, purificandolo da ogni scoria degenerat(iv)a con la sola limpidezza cristallina delle sue immagini e dei suoni e rumori che le accompagnano (il montaggio della colonna sonora, stratificato su più livelli acustici, è curato da Giuliana Zamariola), che la grazia travolgente di una regia rigorosa ed essenziale traduce, per lo spettatore che vi si accosta, in un'inebriante ed irripetibile sensazione di felicità. L'incipit è affidato all'acqua: Piavoli la astrae dalla terra da cui sgorga e su cui scorre senza sosta per lasciarne cogliere l'incedere vorticoso. Poi il soffiare del vento, con il fruscio delle foglie e le ombre dei rami sulla terra. E il cielo, con i tuoni che annunciano un imminente temporale, le nuvole e, finalmente, la pioggia, prima leggera, poi sempre più impetuosa e scrosciante. Poi gli animali, dagli insetti alle rane, persino una lumaca, esilarante nel suo maestoso incedere, fino ad arrivare, finalmente, all'uomo: prima si odono le grida dei bambini (il gioco), poi un uomo ed una donna che si scambiano effusioni (l'amore), poi arrivano le opere dell'ingegno umano (il lavoro, la scienza e la tecnologia), dai canali d'irrigazione all'industrializzazione delle coltivazioni contadine. Ora Uomo e Natura sono inquadrati nell'ambiente, "individuati" all'interno del ciclo della vita mentre si alimentano l'uno dell'altra: la macchina da presa esplora i paesaggi e gli abitanti di queste campagne, scrutandone i volti segnati dal tempo e dalle fatiche al calar della sera e soffermandosi, pudicamente a distanza, sulle chiacchiere familiari del dopocena. E poi arriva la notte, con il canto della natura che torna protagonista, sovrastato solo provvisoriamente dal passaggio di un automobile o di una ruspa, con i cani che abbaiano, il concerto di grilli e cicale, il chiarore abbagliante della luna, il sonno degli uomini disturbato dal passaggio di un aeroplano, il pianto di una donna, finchè poi, lento ma inesorabile, il cinguettìo degli uccelli annuncia l'approssimarsi dell'alba e del nuovo giorno, con cui riprendono anche le febbrili attività lavorative dell'uomo. E poi di nuovo pioggia, nebbia, foschia, gelo: la vita continua...
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