Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Valto (Mato Valtonen) è un sarto che vive con una madre alquanto petulante. Un giorno, stanco delle sue continue lamentazioni, la chiude a chiave nello sgabuzzino, interrompe il lavoro ed esce. Va da Reino (Matti Pallopaa), un suo amico meccanico e "rockettaro" che gli ha aggiustato la vecchia Volga nera. Si mettono nell'auto e vanno a fare un giro. Valto beve caffè in continuazione, Reino vodka come se fosse acqua. Sostano così in diversi bar e in uno di questi incontrano due donne, Tatjana (Kati Uotinen) e Klavdia (Kirsi Tikkulainen), estone l'una, russa l'altra. Accettono di accompagnarsi a loro e si offrono per riportarle a casa. Così arrivano fino a Tallin.
Ambientato negli anni sessanta, "Tatjana" è un film in fuga, che ironizza sulla vita e deposita un pò di sana amarezza tra le pieghe di un incontro occasionale : nell’infruttuosa gita fuori porta di due ragaze dell’est e nella testarda timidezza di due malinconici di professione. Scivola via leggero, avvolto in un bianco e nero arido di pulsioni vive, segue il ritmo della vecchia Volgo nera, che scorazza in lungo e in largo senza un motivo apparente e con una meta che si profila parca di speranze. Nei personaggi di questa storia si avverte forte la voglia di liberarazione, ma non si sa bene da chi e da che cosa, così come è evidente l'impossibilità di azzardare qualche ipotesi definitiva su quale possa essere il fine ultimo verso cui tendono. Camminano solo, camminano tanto e Kaurismaki ci incolla a questa piccola storia di esistenze periferiche sostando lo sguardo sulla nullità del loro girovagare e la sostanza sistemica del loro disadattamento sociale. Con amara ironia, come sempre. L'incomunicabilità che intercorre tra i quattro va ben oltre il dato puramente linguistico, riflette un inaridimento emotivo in stadio avanzato, una perdita di sicure coordinate affettive, quelle cose che rendono di tipo chiaramente istintuale la solidarietà che si instaura tra di loro, frutto del riconoscersi figli della medesima condizione esistenziale, vicini di solitudini. Come in "Ombre in paradiso" e "La fiammiferaia" (i film più cupi di Kaurismaki), si parla con gran fatica, per descrivere semplici movimenti, non per riflettere stati dell'animo, che si intuiscono senza che le parole intervengano e renderne chiari i contenuti o a manifestare una scelta, tra un giro e l'atro, tra una direzione che non prende forma e l'indeterminatezza che si fa largo. Il film inizia, come si è detto, con Valto che chiude la madre dentro uno sgabuzzino e si chiude con quella stessa porta che si riapre e Valto che si rimette alla macchina da cucire. Come se intanto niente fosse accaduto, come se litri e litri di vodka e caffè e migliaia di chilometri mai fossero stati consumati, come se il nulla qualificasse irrimediabilmente l’esistenza di questi uomini declassati, evasi dalla società dei ricchi e lontani dall'occhio indulgente della santità. A Kaurismaki interessano i vuoti che improgionano e i volti che sentenziano, le minuzie che riempiono i ricordi, il fumo delle sigarette e la cicca, il sapore del liquore e l'alone che rimane sul bicchiere. I silenzi evocativi di questi assenti giustificati in perenne balia delle curve.
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