Regia di James Ivory vedi scheda film
Dopo la prova generale de I bostoniani, ecco la consacrazione internazionale del cinema di James Ivory, che è in realtà il cinema del tandem formato da Ivory e dal produttore Ismail Merchant con la collaborazione, costante ma non inamovibile, della sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala. Per parlare del cinema di Ivory bisogna partire da questo terzetto perché rappresentano un’idea di cinema molto precisa tutta fondata sul concetto di armonia.
Da Camera con vista fino a, più o meno, la fine degli anni novanta, quindi per circa tre lustri, Ivory non solo ha ridato linfa al cinema in costume, proponendo una meravigliosa sintesi formale in cui l’immagine non è imbalsamata nel quadretto d’epoca e tutto ciò che abita la scena prende vita con l’armonia tra personaggi e contesto in cui si muovono, ma anche per il racconto di fatti privati, specialmente della borghesia (quasi sempre alta se non aristocratica), accarezzati dalla violenta brezza delle trasformazioni sociali e del crepuscolo di un mondo.
Il film, tratto da un romanzo di Forster, la cui opera sarà splendidamente saccheggiata dalla ditta Ivory-Merchant-Jhabvala, è scisso in due parti: la prima rappresenta la tipica situazione del turismo dell’alta borghesia anglosassone nell’Italia decantata dagli intellettuali romantici, in cui tra cinquantenni represse, scrittrici sulle nuvole, vecchiette arzille e maturi viveur, nasce la storia d’amore tra due anime malinconiche e un po’ annoiate; la seconda si sposta nell’Inghilterra ipocrita e snob in cui i nodi vengono al pettine e l’intreccio sentimentale continua a dipanarsi.
Romanzo per signore fondato su uno stato d’animo e sul disegno dei caratteri più che sulla trama, il film diventa un magnifico pretesto per ragionare sulla lenta decadenza di una classe sociale fuori tempo massimo attraverso personaggi emblematici che tentano in tutti i modi di non sprofondare nel baratro del nuovo secolo.
Ivory gestisce il traffico con un’eleganza innata, scandendo la storia in capitoli dotati di cappelli introduttivi (chi, dove e che succede in scena) come se fosse su una pagina scritta. Dialoghi brillanti, immagine nitida, messinscena votata alla leggerezza ma non alla frivolezza, quasi cecoviano in alcuni passaggi se non cedesse qua e là al languore del, tutto sommato, trascurante episodio d’amore. Cast sublime con menzioni alla gigantesca Maggie Smith, al sottile Denholm Elliott e alla morbida Judi Dench.
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