Regia di Paolo Virzì vedi scheda film
Una commedia sentimentale dallo sviluppo abbastanza banale, se si va a vedere la storia di adulterio tra Bruno e Mirella, operaio delle acciaierie di Piombino lui, cassiera di un supermercato lei, sposati da tre anni senza figli. Ma è il contesto "sociale" ad essere importante e, se ci si pensa bene, forse ancora più attuale che all'epoca. Il film inizia, infatti, nel 1989, l'anno che con la caduta dei muri nell'est europeo, aveva fatto sperare in un futuro di pace e prosperità, quanto meno per la parte di mondo a noi più vicina. Il film si svolge nel terribile autunno/inverno tra il 1992 (l'anno in cui il governo Amato, per salvare i conti dell'Italia, prelevò il sei per mille da tutti i conti i correnti bancari degli Italiani) e il 1993. In quel periodo, per facilitare l'acquisizione delle acciaierie piombinesi da parte del Gruppo Lucchini, furono "dismessi", soprattutto grazie al prepensionamento dei più anziani, qualche migliaio di dipendenti. Nonostante questo, la nuova proprietà prosegui nella sua politica di sfoltimento dei ranghi, soprattutto mediante la messa in cassa integrazione e i licenziamenti, più o meno volontari.
La messa in cassa integrazione a zero ore è proprio quello che capita a Bruno, protagonista del primo film di Virzì. E, se negli anni ottanta, la c.i.g. era stata uno strumento che preludeva al riassorbimento dei dipendenti interessati, nel 1993 di La bella vita tutti sanno che è il passo che precede il licenziamento (perché venga messo in cassa integrazione Bruno e non i suoi colleghi, resta da capirlo: forse perché non sufficientemente protetto dal sindacato?). E la bella vita è, appunto, quella che fanno - o si presume che facciano - i dipendenti che restano a casa, pagati grazie al suddetto ammortizzatore sociale fino ad un massimo dell'80% della retribuzione. E invece "stare in cassa integrazione" non è affatto una bella vita, anche perché, come nota Bruno, il nome stesso di cassa sembra preludere alla cassa da morto. E infatti, quella di Bruno è una vita da zombi: va «alla grande; mi sono alzato all'undici e mezzo, ora vo a gioca' la schedina, poi cucino, poi ridormo... alle cinque c'è "Il calcetto dei campioni" su Telepiù...». Tanto che anche il Brogi, il vicino di casa e collega che si ritrova improvvisamente in cassa integrazione e che a febbraio si prepara alla caccia ai colombacci, che apre in autunno, alla fine usa la sua doppietta per tirarsi una fucilata.
E nemmeno il rapporto tra Bruno e Mirella, che sembrava essersi rinsaldato dopo l'infarto capitato a lui, si aggiusta più: la speranza, suggerisce Virzì, si può intravedere in quello stabilimento balneare che i due soci di Bruno hanno impiantato sul terreno nel quale sarebbe dovuta sorgere la loro impresa che avrebbe dovuto operare nell'indotto dell'acciaio.
La bella vita, opera prima del regista livornese, prelude già al suo cinema futuro, con pregi e difetti: i ritrattini di provincia, l'insieme di comicità popolaresca (anche sboccata, ma non direi volgare) e sottofondo amarognolo, tipica già dei migliori momenti della commedia all'italiana e resta tra i capitoli più riusciti della filmografia virziana.
Tra gli attori, fu molto lodata la Ferilli, che qui dimostra, comunque, di avere delle doti di attrice (che forse, proprio con Virzì, anche in Tutta la vita davanti, ha saputo mettere in mostra), ma la vera rivelazione è Claudio Bigagli, una sorta di dimesso mattatore, che rispetto alla partner può mettere a frutto la propria toscanità, senza per questo indulgere alla macchietta vernacolare.
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