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Wonder Woman

Regia di Patty Jenkins vedi scheda film

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La recensione su Wonder Woman

di lussemburgo
6 stelle

Nel tentativo di recuperare il tempo perduto nella costruzione di un universo cinematografico di derivazione fumettistica analogo al MCU Marvel, la DC incappa nell’emulazione. Non è soltanto la ripetizione – comunque variata – della genesi del personaggio a conferire al film della Jenkins un senso di déjà-vu, bensì la ricostruzione di una narrazione che i film Marvel hanno già esplorato ed espresso tanto da sovrapporsi automaticamente alla nuova pellicola e farla apparire ridondante.

A sottolineare la carica pletorica del film non è semplicemente l’effetto della retorica connaturata ad ogni realizzazione di Snyder, che si esprime con sovrabbondanza di distruzione ambientale, abuso del ralenti e grigiore della fotografia nel ritrarre personaggi sempre monocorde, quanto, soprattutto, la sensazione di aver già visto tutto e di non stare nemmeno assistendo ad un assemblaggio consapevole di cliché e citazioni di secondo grado perché, come quasi sempre nelle produzioni del regista di 300, l’ironia non traspare. Se non fosse per l’ambientazione paradisiaca dell’Isola di Themyshira (ricreata sulla Costiera) e la preminenza di una donna come protagonista, il film sarebbe una fotocopia di Captain America miscelato a Thor: un semidio deve abbandonare il mondo natio per affrontare la guerra mondiale dalla parte degli Alleati, trovandosi poi, rimasto giovane, a vivere e continuare a combattere tra le file dei supereroi americani contemporanei con tanto di costume dai colori nazionali, abbinato ad un antiquato scudo (e un lazo magico). Non manca anche il recupero del dissidio familiare (con un’agnizione che rimanda ai classici della tragedia greca, a cui si vorrebbe far aulico riferimento) con lotta fratricida tra potenti divinità per la vittoria della luce o del buio, della verità o dell’inganno (tipo Loki), mentre i variamente assemblati compagni della prima avventura (vedi gli Howling Commandos), intrappolati dal tempo, invecchiano e muoiono in campo o fuori.

Se Steve Rogers si trovava ad affrontare i nazisti durante la Seconda Guerra mondiale, Diana esce dall’isola Paradiso verso la fine della Grande Guerra per cercare di riportare la pace. Non c’è un Teschio Rosso da combattere ma una folle scienziata chimica dalle ossa craniche spolpate e con un debole per i gas venefici (che tanto successo avranno nel conflitto globale successivo). Lo spostamento dalla Seconda alla Prima guerra mondiale rispetto ai fumetti originali, si giustifica non solo nel non fotocopiare eccessivamente Captain America ma anche dalla esigenze del copione che vede la principessa amazzone alla ricerca dell’incarnazione dell’anima della guerra per identificare l’identità mortale di Ares, e tra le fila dei nazisti un nome avrebbe spiccato con fin troppa evidenza.

Al di là di una certa verbosità e della costante ripetizione dei principi d’azione dell’amazzone per cui la guerra cessa semplicemente trovando e uccidendo Ares, il nucleo del film risiederebbe nella femminilità della protagonista, proveniente da una società perfettamente matriarcale che propugna l’autosufficienza muliebre e la superiorità della donna anche nel combattimento. E proprio nel rapporto tra l’arretratezza della Londra d’inizio Novecento e le istanze paritarie dell’eroina i dialoghi raggiungono una certa ironia e fluidità (che manca al resto del film), soprattutto nel confronto con la segretaria di Steve Trevor, avvezza ad una forzosa subalternità sociale ma caratterialmente non rassegnata ad un ruolo meramente ancillare, e nella sequenza della vestizione ai grandi magazzini con la ricerca di un abito per lo meno comodo. D’altra parte l’eccessiva sottolineatura della dotazione di Steve Trevor (Chris Pine, che rifà Kirk), il militare americano prestato agli inglesi nonché interesse amoroso dell’amazzone, sembra comunque confermare la posizione accessoria della donna, al di là della preminenza di Diana in azione e nella affermazione di costante indipendenza caratteriale (con un molto americano rifiuto delle regole). Anche dal punto di vista registico la Jenkins non inserisce una nota particolarmente femminile in una direzione perfettamente omologata alla serialità cine-fumettistica di stampo snyderiano, ovvero cupa e sovraccarica -mentre quella Marvel è solare e ironica-, se non per una certa insistenza sui primi piani di Gal Gadot, a volte anche sorridente, e su un antagonista femminile, però di pura facciata, poiché intimamente manipolato da Ares e abbandonato senza logica sul finale. O forse la presa in giro della prepotenza maschile, con il conseguente trionfo della donna, si nasconde nel ridicolo assemblaggio di un corpo palestrato sul viso irregolare e innocuo di David Thewlis. Anche se questa sgraziata e disturbante incarnazione del dio della guerra, più che altro, sembra una replica grecheggiante del Magneto cinematografico, per l’abilità a comandare i metalli e a librarsi in verticale, con tanto di elmo di protezione, qui cornuto però.

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