Regia di Zack Snyder vedi scheda film
È tempo di assembramenti di eroi (o cattivi) nell’Universo DC. Dopo la Suicide Squad arriva la Justice League e, nella canonica scena successiva ai titoli di coda, questa promette di avere un suo duplicato malvagio, capitanato da Lex Luthor e dalla new entry Deathstroke.
Justice League, pur firmato da Snyder, è stato terminato e montato da Joss Whedon, già regista degli Avengers e una certa differenza rispetto ai film di Snyder si percepiscono. Non tutto è immerso in un ossessivo e sporco grigiume, anzi macchie di colore fanno anche capolino nelle immagini che, per una volta, non abusano della tonitruante retorica del ralenti enfatico su orchestrazione wagneriana. Purtroppo, rispetto alla versione Marvel, questa riunione di supereroi risente comunque dell’immaginario snyderiano, e, sebbene non grondi la consueta tristezza e l’abuso di distruzione ambientale, incasella in personaggi in ruoli limitati, solo in parte diluiti da una certa ironia.
Dopo il successo di Nolan nella trilogia di Batman, il personaggio è stato derubato di ogni realismo e ridotto ad una macchietta dolente e rabbiosa, sopraffatta da eventi sovrumani che lo vedono incarnare la debolezza di chi non ha potere (se non economico, come sottolinea con ineffabile autoironia) di fronte alla grandiosità di gesta semidivine che lo portano a cercare di creare squadre di esseri più dotati per fronteggiare nuovi ed impensabili pericoli. Questo miliardario spregiudicato senza corazza e senza sarcasmo è stato posto al centro del rinnovato universo cinematografico DC che, sul modello Marvel, riunisce tv e cinema (ma senza la continuità dei prodotti Disney), tingendolo delle sfumature cupe del pipistrello e dei toni, cromatici e retorici, di Snyder, regista che non sembra aver mai superato il trauma del successo di 300, perennemente reiterato con eroi imbronciati e devoti alla causa, arrabbiati e muscolosi. Anche Superman è stato ridotto, in quest’ottica, ad un personaggio gravato da colpe ancestrali e dubbi amletici, cancellando la solarità dell’incarnazione utopistica dell’americano medio (benché superdotato) dei fumetti originari, decretandone la morte, letteralmente e al botteghino, sino a questo film, con la resurrezione del personaggio come comprimario efficace di una squadra mista di disparati campioni.
Se l’origine di Flash viene sostanzialmente demandata all’appendice televisiva omonima (ormai alla IV stagione in America), per Wonder Woman si fa ampio riferimento alla recente pellicola che la vede protagonista (soprattutto in riferimento alla perdita dell’amore e alla successiva volontaria reclusione nell’anonimato), mentre di Aquaman si dice poco (se non che è un atlantideo, come l’omologo Marvel Submariner) e di Cyborg si mostra un po’ di più (in attesa, forse, dei rispettivi film), Justice League è dominato dalla figura catalizzante e ispiratrice di Bruce Wayne. Il miliardario mascherato (che sembra non interessarsi troppo al mantenimento dell’identità segreta) è un po’ imbalsamato dall’espressività di Affleck che, per rimanere in tono col personaggio, accenna solo con le sopracciglia ad un po’ di ironia mentre nei movimenti appare intralciato dalla massa muscolare.
Ogni film DC sembra solo il prologo di un altro, non la continuazione del precedente o un episodio a sé, secondo una strana concezione della serialità per cui la promessa del futuro è sempre più interessante del presente che, difatti, si riduce a numerose e disastrose scazzottate che maciullano i dintorni. Qui l’ambientazione è quasi del tutto extraurbana, lasciando intatta Gotham e quel che resta di Metropolis (come visto in Dawn of Justice: titolo che già presagiva questo), in una sorta di Chernobyl fittizia (come quasi tutte le città DC) dove il cattivissimo di turno, il soprannaturale Steppenwolf, divinità antica e malevole che ambisce a conquistare e, naturalmente, distruggere, la sfuggente Terra, come un Galactus in miniatura. Anche lui, come Loki negli Avengers, è alla ricerca di scatole magiche, qui definite scatole madri, macguffin analoghe al Tesseract Marvel perché portali di enorme potere, nonché motore narrativo imprescindibile quanto vago. Il film parte dalla morte di Superman, sorta di perdita dell’innocenza e insuperato trauma del mondo (e dell’universo DC: era il punto di origine anche di Suicide Squad, dove infatti compariva Batman come ulteriore trait-d’union) per un suo eventuale superamento (mentre il film precedente, Superman v Batman, era mosso dalla necessità di contenimento del kryptoniano) con una riunione di paladini più potente dei suoi singoli componenti per, infine, giungere al ripristino dell’eroe emblematico, rinnovato nel sorriso e nel costume e ingentilito da un infantilismo incontenibile (dopo il cattivo risveglio dalla morte).
L’arruolamento di Whedon, così centrale alla definizione dell’universo cinematografico (e televisivo) Marvel se vuole essere un tentativo di alleggerimento tramite l’ironia e un irrobustimento della definizione dei personaggi, finisce col fare dei film DC dei pallidi cloni di quelli Marvel (peraltro non sempre di ottimo livello, ultimamente), mentre la costruzione di ambiti narrativi integrati più o meno vaghi sembra impadronirsi di Hollywood anche con i film di vaga ispirazione horror del Dark Universe Universal, in un trionfo di terrore per l’innovazione, dove ogni film non è più un prototipo ma soltanto un ennesimo stereotipo che ricicla e allunga il noto. Certo, il risultato di Justice League è migliore di qualsiasi altro film di Snyder, ma rimane comunque ben lungi dal definire un concetto cinematografico autonomo o, almeno, un approccio significativo al materiale fumettistico come, invece, su piani opposti, hanno fatto Nolan e Whedon stesso in tempi diversi, per quanto recenti. Il primo strutturando un approccio psicologico (e psicanalitico) al personaggio di Batman in cui il mascheramento diventa espressione e teatralizzazione di una sofferta verità interiore, l’altro giocando con l’ironia e con la serietà di una serializzazione strutturata su personaggi dalla costruzione e dai contesti credibili.
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