Regia di Béla Tarr vedi scheda film
“Sta per succedere qualcosa, me lo sento”.
[Miklós B. Székely]
Incipit: l'alba della Bestia. Le vacche escono dalle stalle.
Una comunità di reietti in attesa della fine del mondo: una cooperativa di allevatori sperduta nelle pianure ungheresi, distesa desolata di case, fattorie, fienili e baracche sommerse dal fango, sotto il cielo grigio e le piogge dell'autunno.
Sátántangó (1991-1994), viaggio estremo nell'angoscia degli orfani di un'Utopia morta con il crollo del Muro di Berlino [Béla Tarr: “Non potevamo iniziare il film se prima non fosse cambiato il clima politico. Sono partito dall'Ungheria subito dopo Perdizione e ho vissuto a Berlino per oltre un anno. E lì ho assistito alla caduta del Muro”. E proprio in Germania il regista ungherese incontrerà i due produttori che finanzieranno il film, il tedesco Joachim Von Vietinghoff e la svizzera Ruth Waldburger].
L'opera-monstre di Béla Tarr: tre anni di lavorazione, quattro mesi di riprese, oltre sette ore di durata suddivise in dodici capitoli, orchestrata ipnoticamente sulla successione di interminabili piani sequenza e sulla solennità e lentezza dei movimenti della macchina da presa, tratta dall'omonimo romanzo d'esordio (1985) dello scrittore ungherese László Krasznahorkai, da lui stesso riadattato/improvvisato sul set insieme a Tarr (con la collaborazione ai dialoghi di Mihály Víg, Péter Dobai e Barna Mihók e l'uso di ampi brani del libro per i testi della voce fuori campo).
“Un mattino d'ottobre, quando le prime gocce delle lunghe piogge autunnali, che, cadendo sulla terra disseccata, trasformano i sentieri in pantani e separano la città dai dintorni, Futaki fu destato dal suono delle campane. La cappella, isolata a otto chilometri, non aveva una campana. Anche il suo campanile era stato distrutto durante la guerra. La città era troppo lontana e i suoi rumori non giungevano fin là”.
Si viene a sapere che arrivano
Otto vite disperate arrancano miseramente per sopravvivere all'inferno. Sono poche famiglie, che devono spartirsi una grossa somma di denaro, i proventi di un'intera stagione di lavoro: i Kráner, il preside (György Barkó), gli Halics, Futaki (Miklós B. Székely), oltre a Schmidt (László Lugossy), che, d'accordo con Kráner (János Derzsi), intende appropriarsi dei soldi e fuggire. Futaki, amante della signora Schmidt (Éva Almássy Albert), lo scopre e l'uomo tenta di proporgli un accordo conveniente per entrambi. Futaki non si fida, vuole soltanto la sua parte per potersi trasferire al Sud (“Lì gli inverni sono più brevi. Affitterò una fattoria non distante da una grande città: passerò i miei giorni con i piedi nell'acqua calda, oppure diventerò guardiano in una fabbrica di cioccolato, o sorvegliante in un dormitorio femminile. E tenterò di dimenticare tutto, con i piedi sempre nell'acqua calda, senza nulla da fare, se non guardare questa vita del cazzo che passa”) e pretende la divisione del denaro. Poi arriva la notizia inaspettata che Irimiás (Mihály Víg) e il rumeno Petrina (Putyi Horváth), due membri della stessa comunità creduti morti da un anno e mezzo, sono stati visti in città: “Tutto cambierà, vedrete. Irimias è un grande mago, potrebbe costruire un castello con lo sterco di vacca, se volesse”. Schmidt è convinto che si tratti di una manovra degli altri per costringerlo a rinunciare ai suoi piani di fuga, ma alla fine, su consiglio di Futaki, decide di accertarsi della veridicità della notizia.
La violenta dilatazione di spazio e tempo, i suoni e i colori della disperazione, gli spettrali panorami di fango, carne e macerie, martoriati dalla pioggia incessante e dalla furia del vento, il sublime grigiore della fotografia di Gábor Medvigy, il montaggio curato da Ágnes Hranitzky, moglie di Tarr, la meravigliosa colonna sonora di Mihály Víg, che interpreta anche Irimiás, l'andamento danzante del racconto, la precisione matematica dei movimenti, le lunghe carrellate, la profondità di campo, i micro-climax drammaturgici interni ai piani-sequenza, la macchina da presa che gioca con lo sguardo (il proprio e dello spettatore) imprigionandosi/imprigionandolo nell'attesa fino al momento dell'improvvisa e appagante scoperta del nuovo e dell'inaspettato (l'entrata in campo, appiattito addosso a un muro, di Futaki, costretto a nascondersi dopo il ritorno a casa di Schmidt).
“Schmidt andò per primo, Futaki vacillava dietro di lui, tentando di trovare la via nell'oscurità con il suo bastone. La pioggia incessante soffocava le bestemmie di Schmidt. Futaki era allegro e lo incoraggiava a parole: “Vedrai, faremo la bella vita! La bella vita!” “.
Resuscitati dai morti
Irimiás e Petrina vengono convocati in questura e interrogati da un ufficiale (Péter Dobai):
“Devo attirare la vostra attenzione su alcuni punti: allo stato dei fatti non avete altra scelta che collaborare. Se è vero che rispettate la legge, allora vi anticipo solo questo, perchè sarete voi a offrirvi”.
“Noi la rispettiamo, capitano”.
“Non un capitano, la legge!”.
“Lei è la legge, capitano”.
“Oh, no, la legge siamo tutti noi”.
“Perchè non lasciamo così le cose?”.
“Al momento voi siete fuorilegge, sapete molto bene il perchè: non vi devo leggere tutto e non lo ripeterò. D'ora in poi lavorerete per me, o non avrete altra scelta, signor Irimiás”.
Poi, dopo una sosta in un bar, dove, davanti agli occhi del controllore Kelemen (István Juhász), minacciano di far saltare tutti in aria (“Gliela metteremo nelle giacche e nelle orecchie, gli infileremo la dinamite su per il naso”), riprendono il viaggio verso la fattoria sotto la pioggia incessante:
“Come sai che sono ancora lì? Se ne sono andati molto tempo fa, ne avevano tutte le ragioni”.
“Loro? Erano schiavi e lo saranno per il resto della loro vita. Siedono in cucina, cacano in un angolo e ogni tanto guardano fuori dalla finestra. Li conosco fin troppo bene”.
“Che cosa ti rende così sicuro? Sento che non c'è nessuno lì: case vuote, le mattonelle tutte rovinate, un topo o due, pelle e ossa, nel mulino”.
“Siedono sugli stessi luridi sgabelli, si rimpinzano di patate senza sapere che cosa succede, si guardano l'un l'altro con sospetto, vomitando bestemmie in silenzio. E aspettano, perchè credono di essere stati ingannati, schiavi che hanno perduto il padrone, ma che non possono vivere senza orgoglio, dignità e coraggio. Si sentono profondamente giù, ma non a causa loro, perchè gli piace vivere solo nell'ombra...”.
“Dacci un taglio!”.
“... e come un branco seguono quell'ombra, perchè non possono vivere senza splendore e illusione. Eppure, non togliergli tutto questo o impazziranno e distruggeranno la loro sorte. Quello di cui hanno bisogno è un ambiente riscaldato e uno stufato di paprika che bolle, sono felici se la notte trovano sotto la coperta calda la moglie grassa del vicino di casa. Mi stai sentendo?”.
“Certo...”.
Il giovane Sanyi Horgos (András Bodnár), con cui si erano accordati affinchè diffondesse la voce della loro morte, li accoglie lungo la strada:
“Da quando ve ne siete andati non è cambiato nulla: il preside vive ancora a casa da solo, la signora Schmidt con Futaki, lo zoppo. Mia sorella è matta, spia tutti: mamma la picchia, ma continuano a dire che rimarrà pazza per tutta la vita. Il dottore continua a meditare tristemente in casa: siede nella sua poltrona, lascia le luci accese giorno e notte e a volte vi si addormenta pure. Quel posto puzza come l'inferno: fuma buone sigarette e beve il suo brandy... domandate alla signora Kráner, glielo prende lei. Schmidt e Kráner oggi portano i soldi del bestiame: lo stanno facendo tutti da febbraio, tranne mia madre. Quei bastardi l'hanno esclusa, ma loro hanno il denaro. Il proprietario del bar ha venduto il suo buon Pannonia e si è comprato un vecchio macinino: bisogna spingerlo per metterlo in moto. Va in città per vedere sua moglie una volta al mese, sebbene viva a casa di mia sorella, perchè gli dobbiamo dei soldi. Ci servivano per comprare le sementi, l'anno scorso”.
Arrivano al bar quando è ormai buio, senza che la pioggia abbia mai cessato di tormentarli.
Primi strappi nelle progressioni del racconto, che inizia a dipanarsi avanti/indietro nel tempo frammentando l'evoluzione cronologica della vicenda e moltiplicando i punti di vista. E, elemento tutt'altro che marginale nel cinema di Tarr, prime, amarissime avvisaglie (anticipate dalla gag in questura, con la lunga attesa di Irimiás e Petrina fuori dall'ufficio sbagliato) della macabra ironia di fondo che sottende ispirazione e approccio, impietoso contraltare satirico alle tragedie della vicenda. Inoltre, “Siedono in cucina, cacano in un angolo e ogni tanto guardano fuori dalla finestra” e “Siedono sugli stessi luridi sgabelli, si rimpinzano di patate senza sapere che cosa succede, si guardano l'un l'altro con sospetto, vomitando bestemmie in silenzio. E aspettano, perchè credono di essere stati ingannati, schiavi che hanno perduto il padrone, ma che non possono vivere senza orgoglio, dignità e coraggio”: in due battute di Irimiás, oltre che nelle furiose raffiche di vento all'inizio del capitolo, l'anticipazione della fine, ovvero Il cavallo di Torino (2010).
“A est il cielo va schiarendosi veloce come la memoria. All'alba tende completamente al rosso sull'orizzonte scintillante. Come il mendicante del mattino arranca salendo i gradini della chiesa, così il sole, sorgendo, dà vita alle ombre, in modo che quella terra e quel cielo, gli uomini e gli animali emergano dalla disturbante e confusa unità nella quale furono inestricabilmente avviluppati. Egli vide la fuggevole notte dall'altra parte, i suoi terrificanti elementi a turno discendere sull'orizzonte a ovest, come un'armata disperata, sopraffatta, confusa”.
Si viene a sapere qualcosa
Seduto in poltrona davanti alla finestra di casa, il dottore (Peter Berling) aveva assistito al momento in cui Futaki scopriva il tradimento di Schmidt. È un uomo vecchio e malato, devastato dall'alcool e con l'unica compagnia dei suoi diari, dove registra ogni avvenimento, compresi i suoi sospetti sul comportamento di Schmidt, che annota appena si accorge dell'episodio. Ed è sempre più solo, perchè anche la signora Kráner (Irén Szajki) lo ha avvertito che fino alla prossima primavera non potrà più provvedere a lui e consegnargli la spesa: “K. se ne è andata: non può farlo più. L'autunno scorso non si preoccupò della pioggia, né di dover camminare. K. ha un piano, sta architettando qualcosa”. Con la damigiana del brandy impietosamente vuota, il dottore è costretto a uscire di casa, affrontando la furia del temporale. Si ripara dalla pioggia all'interno di un capannone abbandonato, dove incontra due prostitute, Mari e Juli, le sorelle di Sanyi e della piccola Estike (Erika Bók), e si riscalda al fuoco del loro falò, poi riprende la marcia sotto il diluvio. Arriva al bar quando è ormai sera: dal locale proviene il suono di una fisarmonica, ma prima di potervi entrare, il dottore si imbatte in Estike, che segue, in piena notte, fino a perdersi in un bosco: si accascia stremato a terra a poca distanza dal sentiero dove, nello stesso momento, passano Irimias, Petrina e Sanyi, diretti verso il bar dopo il loro incontro. All'alba viene soccorso dal controllore Kelemen.
L'entrata in scena del personaggio (indimenticabile) del dottore, interpretato da un monumentale Peter Berling: un alcolizzato vecchio e malato, dalla mole talmente sfatta e imponente da faticare a reggersi in piedi e squassato perennemente da tosse e affanno, un uomo che, esaurite le scorte di brandy, non esita a vestirsi e ad affrontare una via crucis impossibile per raggiungere il bar (gli splendidi piani-sequenza che lo mostrano camminare eroicamente sotto la pioggia e poi ripararsi nel capannone abbandonato dove incontra le due prostitute, paradossale - nella disumanità del contesto generale - cristallizzazione ironica dell'abbrutimento, della follia e dello stoicismo del personaggio).
“ “Il mio cuore” - egli pensava e ripensava - “desiderava giacere in una stanza accogliente, sorseggiando una zuppa calda, curato da dolci, piccole suore”. Poi si girava verso la parete. Si sentiva leggero e sereno e le parole di rimprovero del controllore echeggiarono nelle sue orecchie per molto tempo: “Non avresti dovuto farlo, dottore! Non avresti dovuto farlo!” ”.
Il lavoro del ragno I
Il bar. Fuori infuria il temporale. Il controllore Kelemen entra ad annunciare l'imminente arrivo di Irimiás e Petrina: “Dovevo vedere Hochan, il macellaio, e poi ho incontrato il piccolo Toth, che era il mio vicino a Póstanya e mi ha detto che Irimiás e Petrina sono stati dagli Steigerwald e hanno parlato di polvere da sparo! I bambini degli Steigerwald ne parlavano in strada. E mentre tornavo, lasciando la strada all'incrocio di Elek, li ho visti. E quindi ho capito che cosa, in che modo e perchè”. L'oste, János (Zoltán Kamondi), è il più scosso dalla notizia, fino all'arrivo, alle undici di sera, della signora Schmidt, accorsa da casa per avere conferme e poi rimasta sola con la propria disperazione, seduta al tavolo, lo sguardo perso nel vuoto:
“Che cos'è questo odore? Non c'era poco fa”.
“Sono solo i ragni... o il carbone...”.
“No... è la terra”.
Arriva scucito
La piccola Estike Horgos, su consiglio di suo fratello Sanyi, ha seppellito un fazzoletto pieno di monete nella speranza che, annaffiando il terreno, germoglino e si moltiplichino:
“Diventeremo ricchi?”.
“Sicuro”.
“Ci invidieranno tutti?”.
“Ma certo”.
Tornata a casa, si accanisce su un gatto, lo intrappola in una rete e poi lo uccide con il veleno per topi. Infine, scopre che Sanyi le ha rubato i soldi: cammina nel bosco con il gatto morto sotto un braccio, sotto la pioggia, fino a tarda sera, arriva fino al bar, dove tutti gli avventori del locale stanno ballando ubriachi al suono di una fisarmonica. Mentre li osserva dal vetro della finestra, sopraggiunge il dottore in cerca del suo brandy: fugge via e riprende il suo cammino fino all'alba, quando, distrutta dalla stanchezza, si ferma tra i ruderi di una casa demolita. Poi, sembre abbracciata al gatto morto, si sdraia a terra, ingoia una manciata di veleno per topi e si uccide.
La successione dei capitoli affianca in sequenza i due climax drammaturgici principali del film, partendo dall'impatto insostenibile - e che non a caso, semplificandone la portata, corrisponde, al momento più celebre e toccante di Sátántangó - della lunga sequenza (un superbo tour de force registico di oltre 50 minuti) con la tragica vicenda di Estike (e del gatto): brutalità, poesia, assurdità, orrore, agonia, la muta e atroce sofferenza di Erika Bók, il suo sguardo allucinato, i suoi passi verso la fine. Non solo: Estike, durante il suo sfiancante e disperato peregrinare, raggiunge anche il bar, da dove provengono le musiche di una fisarmonica. Tarr aveva già mostrato il suo incontro con il dottore (nel capitolo Si viene a sapere qualcosa) e qui, prima di “proseguirlo”, punta la macchina da presa/Estike fuori dalla finestra a osservare quello che sta accadendo nel locale [e poi, più avanti, raggelante e dolente, il capovolgimento, con la macchina da presa nel locale a mostrare la finestra da cui Estike (la) osserva(va) all'interno].
“ “Sì”, ella si disse dolcemente, “gli angeli vedono e comprendono”. Si sentiva serena: gli alberi, la strada, la pioggia e la notte... tutto irradiava pace. “Tutto quello che accade, è bene”, pensò. Tutto stava diventando semplice, alla fine. Richiamò alla memoria gli eventi del giorno precedente e sorrise non appena capì come le cose si univano tra loro. Si rese conto che quegli avvenimenti non erano il risultato del caso, ma c'era un indicibile e magnifico significato che li legava. E sapeva che non era sola, poiché tutte le cose e le persone, suo padre lassù, sua madre, i suoi fratelli, il dottore, il gatto, quelle acacie, quella strada fangosa, quel cielo, la notte, dipendevano da lei. Proprio come se da lei dipendesse tutto. Non aveva motivo di essere preoccupata, sapeva che i suoi angeli avevano già programmato tutto”.
Il lavoro del ragno II (I capezzoli del diavolo, Sátántangó)
Il bar. Futaki, gli Schmidt, i Kráner, il preside, Halics (Alfréd Járai) e sua moglie (Erzsébet Gaál) si sono divisi il denaro. Il controllore Kelemen, ubriaco, racconta agli altri il suo incontro con Irimiás e Petrina, farneticando frasi smozzicate sul loro imminente arrivo alla fattoria: non interrompe il suo sproloquio neanche quando entra nel locale la madre di Estike (Ilona Bojár), alla ricerca di sua figlia (“Starà vagando da qualche parte. Se torna, la picchierò”). Poi l'alcool inizia a scorrere a fiumi, sciogliendo ben presto ogni freno inibitore e tutti gli avventori del locale si lasciano coinvolgere in un ballo scatenato al suono di una fisarmonica. Estike, fuori sotto la pioggia, li osserva dalla finestra. Durante un tango appassionato, il preside flirta con la signora Schmidt, mentre il controllore Kelemen accompagna la musica con le sue declamazioni: “Il tango è la mia vita. Tango! Tango! Tango! Mia madre è il mare, mio padre è la terra. Il mio nome è Tango! Tango! Tango! Mio padre è il mare... è la mia vita il tango... Mio padre è il mare, mia madre la terra... non importa... è la mia vita... Tango! Tango! Tango! È la mia vita! Il tango... Mia madre è il mare e mio padre è la terra... né mare, né terra... vaffanculo! Che cosa avete fatto al mare e alla terra? È la mia vita... Tango! Tango! Tango! Mia madre è il mare...”.
Poi, ormai allo stremo delle forze, si addormentano uno dopo l'altro.
Un altro travolgente tour de force creativo di oltre 20 minuti [omaggiato e rielaborato, tra l'altro, in una sequenza più breve ma ugualmente suggestiva di L'uomo di Londra (2007)]: una fisarmonica impazzita suona al gran varietà dei miserabili, uomini e donne ubriachi che danzano goffamente, una bambina (morta) che li osserva(va) dalla finestra, un tango delirante, appassionato e ossessivo che li accompagna allo sfinimento e al silenzio.
“E al dolce suono di una fisarmonica, i ragni del bar hanno lanciato l'ultimo attacco. Tessono scialbe ragnatele sui bordi dei bicchieri, sulle tazze, sui posacenere, intorno alle gambe dei tavoli e delle sedie e poi le tengono insieme con trame segrete, fin tanto che, dai loro angoli nascosti, riescono a notare ogni minimo movimento e ogni piccola increspatura finchè questa perfetta ragnatela non viene lacerata. Tessono ragnatele sulle loro facce assonnate, sui loro piedi, sulle mani, poi si affrettano a tornare nei loro nascondigli, nell'attesa che una delle loro ineffabili trame si scuota, per cominciare tutto daccapo”.
Irimiás tiene un discorso
La veglia funebre di Estike, adagiata su un tavolo davanti alla madre e a tutti gli abitanti della fattoria. Irimiás prende la parola: “Ci conosciamo bene: ho tenuto gli occhi aperti per decenni e ora osservo amaramente che, al di là dello spesso velo dell'inganno e della disonestà, nulla è cambiato. La miseria è rimasta miseria. I due cucchiai in più di cibo rendono solo l'aria più leggera per le nostre bocche, ma ho capito che tutto ciò che ho fatto finora non conta nulla. C'è bisogno di una ben più drastica soluzione. Così, ritenendolo opportuno, ho preso una decisione: riunire alcune persone e creare un modello di fattoria che assicuri un buon tenore di vita e unisca questo piccolo gruppo. Sto creando un'isola in cui nessuno sarà senza potere, dove tutti vivranno in pace e si sentiranno al sicuro. Ecco perchè sono andato al podere di Almás. L'edificio è in buone condizioni, il contratto è roba da poco, c'è solo un problema... inutile farne un mistero... il denaro. Senza un soldo, la cosa è morta: serve il capitale per la produzione, ma è un po' più complicato di così, inutile entrare nei dettagli. E capirete che le circostanze del nostro incontro mi hanno reso insicuro: voi ne sarete all'altezza? Vi priverete del vostro denaro, quel po' di denaro frutto del duro lavoro, per realizzare un piano così inaspettato? Pensateci, non è necessario decidere immediatamente. Ma se il fato stabilirà che d'ora in poi resteremo insieme, inseparabili, ricordate il prezzo che è stato pagato. Non dimenticate la bambina, che forse doveva morire per far sorgere la nostra stella. Chi può saperlo, amici? Se è così, beh... la vita è stata davvero dura con noi”.
Nel momento del dolore più atroce, il barlume di speranza trasmesso dalle parole di Irimiás scuote le coscienze di tutti, convincendoli ad abbracciarne il progetto e a finanziarlo deponendo tutto il denaro necessario accanto ai piedi di Estike.
Prospettiva dal fronte
Irimiás, dopo essere stato a letto con la signora Schmidt nel retrobottega del bar, saluta tutti quanti ringraziandoli per la fiducia e riparte con i soldi verso il podere di Almás, dove promette di attenderli per intraprendere il nuovo progetto. Gli altri iniziano a preparare le valigie e, appena pronti, partono insieme in carovana, non prima di aver distrutto tutto quello che non possono portarsi dietro (“Non lascerò nulla agli zingari”). L'unico a non essere felice è János, costretto a chiudere il bar. L'unica ad aver deciso di restare nella fattoria, insieme ai suoi figli, è la signora Horgos, la madre di Estike.
Durante il tragitto verso Almás, si accorgono di essersi dimenticati del dottore (“Ora starà morendo di fame”):
“Se ti manca così tanto, vallo a riprendere!”.
“Non lo vedo da mesi”.
“Non c'è ragione di rimpiangerlo, sta bene. Si ubriaca ogni giorno e poi ritorna a dormire. Mi farebbe piacere avere l'eredità di sua madre nel portafoglio”.
Arrivano a destinazione in piena notte e si insediano, sconfortati, nelle loro nuove abitazioni, ancora più spettrali e fatiscenti di quelle appena abbandonate.
“Te l'ho detto, no? Non bisogna perdersi d'animo, dobbiamo aver fiducia fino al nostro ultimo respiro, altrimenti che cosa ne sarebbe di noi? Dimmelo, che cosa?”.
Un gufo, appollaiato su un cornicione, li osserva mentre dormono.
La carovana degli sfollati diretta verso l'ennesima illusione al grido di “Non lascerò nulla agli zingari” [ancora Il cavallo di Torino], la loro marcia, curvi sotto il peso delle valigie e il tormento della pioggia, l'arrivo in una nuova desolazione, resa ancor più spettrale dalle ombre della notte, un'implacabile macchina da presa intorno ai loro sguardi increduli. E poi, tra ironia e sconforto, i loro sogni.
“Fuori non era cambiato nulla: il giorno non era sorto, la notte non era calata, il giorno stava per nascere o stava per scendere la notte”.
Andare in paradiso? Avere incubi?
Irimiás e Petrina, accompagnati da Sanyi, sono appena ripartiti dal bar. Hanno truffato tutti:
“Questa volta ascolta il vecchio Petrina: prendiamo il primo treno e leviamoci di torno, ci metteremo in un bel guaio se capiscono che cosa sta succedendo”.
“Sta' zitto! Non vedi che siamo dei patrioti in questa battaglia senza speranza per la dignità umana? Petrina, il nostro tempo è giunto!”.
“Il nostro tempo è giunto... Continui a dirlo, ma il nostro tempo non arriverà mai! Ho avuto fiducia e fede ed eccoci qui...”.
“La tela del ragno... Capisci? La gigantesca ragnatela di Irimiás... È chiaro? Dove qualcosa si muove...”.
Arrivano in città, deserta se non fosse per un branco di cavalli, scampati al mattatoio, che attraversano una piazza. Si fermano nella locanda di Steigerwald (András Fekete) per procurarsi un'automobile: prima di mangiare, Irimiás detta a Petrina una lettera indirizzata alle forze dell'ordine, poi convocano l'armaiolo Páyer (Gyula Pauer) per acquistare una grossa quantità di esplosivo.
Prospettiva dalle retrovie
Il podere di Almás, l'alba. Diluvia. Irimiás arriva in ritardo all'appuntamento con gli altri, già convinti di essere stati truffati:
“Dobbiamo rimandare il nostro piano per un po', perchè ci sono persone che non apprezzerebbero la creazione di un'impresa su basi così precarie. La loro prima obiezione è che la fattoria sorgerà piuttosto isolata e difficilmente raggiungibile dalla città, a malapena si riuscirebbe ad averne il controllo. Perciò, l'unica cosa da fare ora per raggiungere il nostro scopo è di sparpagliarci qui intorno per un po', finchè questi signori saranno così disorientati che noi potremo tornare qui e cominciare a lavorare”.
Kráner rivuole indietro il proprio denaro, ma Irimiás riesce nuovamente a ottenere la fiducia di tutti. Poi ripendono il viaggio, questa volta sul camion messo a disposizione da Irimiás, sempre sotto la pioggia, incapaci anche di parlare. Arrivati in città, ricevono le ultime istruzioni: gli Schmidt andranno a Elek, i Kráner a Keresztur, gli Halics a Postelek, il preside resterà in città. Futaki, invece, decide di abbandonarli: “Futaki è il più grande idiota che conosca. Che cosa credeva di trovare, la terra promessa? Che cosa si aspettava il povero diavolo?”.
Solo problemi e lavoro
In questura vengono stilati i resoconti ufficiali delle confessioni di Irimiás:
“La signora Schmidt... Scrivi... al posto di 'stupida femmina con grandi tette', scrivi 'persona mentalmente immatura, che per lo più enfatizza la sua femminilità'...”.
“Che ne dice di 'dannata puttana'?”.
“Potrebbe essere 'donna di scarsa virtù' o 'donna di bassa moralità'. Potremmo scrivere 'donna che vende il proprio corpo senza esitazione'...”.
“D'accordo. Finito?”.
“Sì. 'Andava a letto con chiunque e, se non lo faceva, era solo per puro caso'... È l'emblema dell'infedeltà coniugale...”.
“Finito?”.
“Al posto di 'olezzo creato dal miscuglio di acqua di colonia scadente e putridumi vari'?”.
“Metti 'tenta di togliere quell'odore dal proprio corpo in un modo insolito'... La signora Kráner... al posto di 'una megera che sbraita', metterei 'diffonde indiscretamente voci false'...”.
“E invece di 'grassa scrofa'?”.
“Lascialo così”.
“Non dovremmo...”.
“Allora metti 'grossa'...”.
“Sovrappeso?”.
“Perfetto”,
“Possiamo lasciare la signora Halics?”.
“Certo”.
“E 'verme strisciante che nuota nell'alcool'? 'Vecchia ubriacona, bassa di statura'...”.
“... 'ridicolo pagliaccio, lordura inerte che sbanda alla cieca'... Potremmo toglierlo”.
“Va bene”.
Completato il lavoro, i due impiegati della questura escono dall'ufficio.
“Si stringono la mano fuori al cancello:
“Come te ne vai?”.
“Con l'autobus”.
“Ciao, allora”, dice l'impiegato. “Bella giornata, vero?”, ha aggiunto l'altro. “Sì, dannatamente bella”.
Si stringono di nuovo la mano e se ne vanno. A casa, entrando, a entrambi viene fatta la stessa domanda: “Giornata difficile, caro?”. Alla quale, esausti e tremanti, possono soltanto rispondere: “Niente di che, le solite cose, cara” ”.
Il cerchio si chiude
Il dottore è tornato a casa, la damigiana del brandy è finalmente piena. Si siede in poltrona davanti alla finestra, distrutto dalla stanchezza. Dopo aver bevuto, si dedica subito al suo diario: “Durante i tredici giorni che ho passato in ospedale la signora Kráner non ha più messo piede qui una sola volta. Tutto è esattamente come l'ho lasciato. Nessuno di loro ha osato abbandonare le case, devono essere sdraiati sui propri letti a ronfare o a fissare il soffitto. Non si rendono conto che questa totale inerzia, questa passività, li consegna nelle mani di ciò che più temono: una rivoluzione cosmica. Il mio udito va peggiorando”. Si alza improvvisamente, indossa il cappotto ed esce di casa: cammina senza sosta lungo un interminabile sentiero di fango, osservando la desolazione del nulla attorno a sé. Arriva fino alla cappella abbandonata, attirato dal suono di un campanaccio, agitato da un vecchio cieco, che urla ininterrottamente “Arrivano i turchi! Arrivano i turchi!”. Si rimette in marcia e torna a casa: “Devo essere pazzo: ho confuso il tuonare del cielo con il rintocco delle campane”. Poi inchioda alcune assi di legno alla finestra, fino a coprirla completamente. L'oscurità invade la casa del dottore, che torna al suo diario: “Un mattino d'ottobre, quando le prime gocce delle lunghe piogge autunnali, che, cadendo sulla terra disseccata a ovest della fattoria, trasformano i sentieri in pantani e separano la città dai dintorni, Futaki fu destato dal suono delle campane. La cappella, isolata a otto chilometri a sud-ovest del vecchio campo di Hochmeiss, non solo non aveva una campana, ma anche il suo campanile era stato distrutto durante la guerra...”.
Sátántangó vince (soltanto) il Premio Caligari al festival di Berlino del 1994 (l'Orso d'oro andò a Nel nome del padre di Jim Sheridan) ma raccoglie ovunque consensi e ammirazione. Affiancato dagli attori di sempre e dai suoi collaboratori più fidati (manca all'appello soltanto il direttore della fotografia Fred Kelemen, che arriverà nel 1995 nel cortometraggio Journey on the Plain), Tarr riparte da una vicenda di tradimenti e disperazione in una comunità di emarginati, dalla solitudine e dalle scelte formali di Perdizione (1987) per spingersi fino alle estreme conseguenze: rarefazione narrativa, esasperazione dell'attesa, il viaggio come percorso obbligato tra distanze sterminate, lo spazio come conradiano “cuore di tenebra”, il tempo come (diversificazione del) punto di vista, la contemplazione della decadenza della “condizione umana”, tra dolore, indignazione e pungente black humour, la scoperta del dettaglio, la continuità di azione del fuoricampo, l'ostilità della natura e la desolazione del paesaggio, mentre le soluzioni estetiche e stilistiche della messinscena sposano il rigore di Tarkovskij e la potenza allegorica del cinema di Bresson (la via crucis, il messia, l'apocalisse) con la solennità dei piani-sequenza di Angelopoulos, mutuando dallo Jan Svankmajer di Johann Sebastian Bach: Fantasia in sol minore (1965) analoghe ispirazioni visive per l'esplorazione ossessiva del “corpo materico” (le successioni interminabili dei muri decrepiti delle case, le pietre segnate dagli squarci del tempo e della storia) piuttosto che il ricorso ai simbolismi (la sequenza dei sogni, ”Arrivano i turchi! Arrivano i turchi!”, l'enigmaticità del finale) del surrealismo, su cui tornerà, invece, più a fondo Le armonie di Werckmeister (2000).
Uno sguardo rassegnato? Tarr: “No, penso invece di essere pieno di speranza: girando un film puoi credere che continuerà ancora a esistere nei prossimi cinquant'anni e che qualcuno potrà prima o poi vederlo, che è il massimo grado di ottimismo”.
Capolavoro.
“Attenzione a come vi sedete, ci vogliono due ore persino su questo carro. Abbottonate i cappotti, mettetevi i vostri cappucci e i berretti e volgetevi verso il futuro splendente, o questa maledetta pioggia ci sommergerà”.
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