Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Più che un film, Satantango è un’esperienza: circa sette ore e mezza di durata, in bianco e nero, proposto (giustamente) in versione originale sottotitolata, scandito da lunghi piani-sequenza e da movimenti di macchina di una lentezza esasperante, con sequenze ripetute da punti di vista diversi, è un’allegoria cupa ed inquietante su una società fondamentalmente allo sbando e alla ricerca di una guida. La tecnica di riproporre la stessa sequenza, inquadrata secondo l’ottica di diversi personaggi, fa venire in mente Rashomon e, in parte, addirittura Pulp Fiction, opera peraltro diversissima, con la quale Satantango ha singolarmente in comune l’anno di uscita. Ma i punti di riferimento cinematografici, per questo ballo in un villaggio della puszta sferzato dalla pioggia e dal vento (spesso tutt’e due insieme), sono, a mio parere Dreyer, quando è in scena lo ieratico lestofante Irimìas, e Tarkovskij, per il quale viene da pensare almeno a Stalker. Quella di Satantango è un’umanità disorientata, egoista, alcolica e trafelata, alla quale due avanzi di galera, che sembrano un po’ Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot ed un po’ Don Chisciotte e Sancho Panza, possono restituire un barlume di speranza. Anche se, alla fine, si resta con il dubbio che sia tutto il racconto di un confidente della polizia oppure il diario di un medico ubriacone.
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