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Rasoi

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su Rasoi

di (spopola) 1726792
8 stelle

Ripresa filmata (che è già a suo modo “grande cinema” per la testimonianza che rappresenta, ma che non può gareggiare con la bellezza sublime della rappresentazione “reale”, e solo chi ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo può comprendere ciò che dico e darmene ragione) dell’omonimo spettacolo scritto insieme all’ottimo Toni Servillo su testi di Ezio Moscato, del quale Mario Martone aveva curato anche la regia della messa in scena che qui rielabora “in presa diretta” per lo schermo con grande senso della misura.
Lo spettacolo, un vero e proprio canto d’amore a metà strada “fra Spoon River e Genet” (il Mereghetti) è questo: i ricordi, le ossessioni, le miserie, le sofferenze, le invettive, la storia e la poesia di una città, Napoli, e della sua gente, esplorata nelle sue “viscere” profonde, fra arcaismo e modernità, con una partecipazione emotiva e conoscitiva “in bilico fra il Mito e la Storia” (il Morandini) che rende straordinario il risultato.
I personaggi senza nome che emergono dall’oscurità del nero avvolgente dei fondali che si squarciano improvvisi, ritornando ad essere “viva carne pulsante” per raccontare le loro storie dolenti e lussuriose, sembrano affiorare da un sottofondo cittadino sospeso nello spazio e nel tempo, ognuno di loro alle prese con i propri affanni “come in un brodo primordiale fatto di sperma e di sangue” e parlano e cantano con l’accompagnamento dolente di un pianoforte da café-chantant che è quasi l’unico orpello: uno scugnizzo in mutande che grida come un ossesso spiritato; un vagabondo cieco che narra le molteplici “invasioni barbariche” subite dalla città; una donna sofferente d’insonnia per il caldo terrorizzata per l’annunciato arrivo di una epidemia; la regina Maria Carolina che racconta la propria storia di vita; la statua della Madonna che, come in una passione laica, rievoca la violenza subita da Palummiello, figlio di una lavandaia; le visioni apocalittiche di Re Bomba; gli incubi di una popolana. e così via discorrendo, per arrivare poi all’invettiva di un guappo che si scaglia  contro il degrado in espansione della città, auspicando maggior rispetto per artisti, ballerine e sciantose.
“Rasoi” dunque diventa film dopo essere stato teatro (e che teatro!), o per dirla in maniera migliore, “applica al teatro una scrittura che può verificarne i valori di fondo ma, nello stesso tempo, si mantiene assolutamente discreta” poiché Martone ha il pregio di imporre al mezzo la schietta fisicità dei teatranti e di utilizzarlo magnificamente come “strumento” di avvicinamento.
Gli attori, inscindibili dai personaggi che rappresentano, recitano “a soggetto” o così pare, fanno il loro numero, dialogano a una distanza a volte perfettamente percepibile, altre “semplicemente” simbolica, appaiono e scompaiono risucchiati dalle quinte e dal buio, confermandosi così “separati” fra loro, anche nel tempo e nello spazio, pur se “riuniti” dalla sorte in un ambiente comune (che non è solamente quello scenico) e per questo “iscritti” nella Storia. Si propongono così come fantasmi viventi, figure memoriali annidate nell’inconscio, per giocare col presente collettivo, travalicandone spesso i confini però. Ed è proprio così che i veri e propri “colpi di rasoio” inferti dalle loro voci e dai loro gesti, restituiscono il senso della classicità “antica” a una tragedia che è “dell’oggi”, del presente, del quotidiano vivere, poiché leggibile e interpretabile “liberata” dai vincoli delle simbologie temporali che altrimeni diventerebbero “scorie”, incrostazioni.
Attori stupendi animano i racconti (Toni Servillo, Iaia Forte, Lucia Maglietta, Enzo Moscato, Gino Curcione, Isacco Esposito, Marco Manchisi, Tonino Aiuti e Vincenzo Modica, tutti appartenenti alla mitica e ormai lontana stagione dei “Teatri Uniti” ) senza i quali “certe cose” così potentemente coinvolgenti non si possono realizzare: si esibiscono nella verità di un Sud martoriato da troppi disastri con il coraggio della loro entusiastica dedizione, per fare - utilizzando appunto la loro arte recitativa - uno straordinario laboratorio universale di passione e di vita, barocco ed essenziale al tempo stesso, vitale e malato, duro e dolcissimo, “in bilico fra morte e resurrezione” (ancora il Morandini).
Le canzoni napoletane, di travolgente bellezza, sono eseguite da Enzo Moscato, le altre musiche tutte ugualmente potenti e necessarie, riprendono brani di Scarlatti e Haidyn.

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