Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film
Il gusto del sakè è la pausa di ristoro, è la momentanea parentesi di ebbrezza che ci sottrae al tempo, all’osservazione del suo inesorabile fluire, a cui non vogliamo stare dietro. Nel mondo di Ozu il tavolino del salotto o il bancone del bar è, per gli anziani, il luogo dell’incontro col passato e, per i giovani, un punto panoramico sul futuro; come se fosse di conforto poter visitare col pensiero il posto che più ci è caro, e quindi più ci fa soffrire. È salutare, infatti, ritrovare ogni tanto gli acuti della vita, ovvero quei sogni e quei rimpianti che sono moti dell’anima distinti e compiuti, e ci fanno uscire dal presente, così ripetitivo e tiepido nelle sue faccende quotidiane. La prolissità dei racconti di Ozu segue passo passo il procedere dell’oggi, che cucina a fuoco lento, e con molto fumo, gli ignoti sviluppi del domani. In questo film la lentezza è aggravata dall’inerzia dei protagonisti, incatenati all’immutabilità delle abitudini consolidate e alla irreversibilità delle perdite subite. In questo quadro di immobile tranquillità, la paura di cambiare, di salpare le ancore, deriva dal timore di arrivare troppo lontano. Il finale però insegna che per andare avanti non occorre spiegare le vele, ma è sufficiente mollare un po’ la fune dell’ormeggio, per allontanarsi dalla riva quel tanto che basta a farsi lambire dalle onde e lasciarsi dolcemente trasportare.
L’amore filiale può essere un sentimento eterno, vincolato dalla gratitudine e dal dovere di reciproca assistenza, ma renderlo esclusivo equivale a rimanerne schiavi. Indicare prudentemente la strada che conduce fuori casa è, invece, il modo migliore di aiutarsi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta