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Il gusto del saké

Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il gusto del saké

di vermeverde
9 stelle

Ultimo capolavoro di Ozu, maestro nel saper variare di film in film i temi a lui cari da molteplici punti di vista e, forse, il più disconosciuto fra i grandi registi e il meno commerciale, per l’apparente semplicità e il rifiuto di scene d’azione o spettacolari a favore dell’autenticità quotidiana.

Sanma no aji” del 1962, noto in Italia come “Il gusto del sakè” ma che tradotto letteralmente suonerebbe più o meno come “il sapore di un pesce”, è l’ultimo capolavoro di Yasujiro Ozu, spentosi prematuramente nel 1963 il giorno del suo sessantesimo compleanno per un tumore alla gola.

La trama del film è incentrata sugli sforzi di un anziano padre vedovo (interpretato da Chishu Ryu pressoché sempre presente nei film di Ozu), il quale, avendo assistito al degrado di un suo antico professore ora dedito all’alcool per compensare la solitudine, decide di maritare la figlia (Shima Iwashita), non più giovanissima e dedita ad accudirlo, ma che non desidera sposarsi per poter rimanere al fianco del padre. La situazione di una figlia restia al matrimonio era già stata trattata, oltre che in altri film di Ozu, in modo pressoché analogo nel precedente Tarda primavera del 1949 del quale appare quasi come un parziale “remake”. Trovo, comunque, singolare la costante attenzione ai temi della famiglia e del matrimonio da parte di Ozu , che non si è mai sposato e non ha avuto relazioni note, ma è sempre vissuto con l’anziana madre. In questo film, tuttavia, la trama è arricchita anche dalle vicende del figlio maggiore Koichi (Keiji Sada) che si fa dare dal padre un’ingente somma per l’acquisto di un frigorifero, ma che utilizza per acquistare delle mazze da golf: ciò dà modo al regista di evidenziare sia l’occidentalizzazione ed il consumismo delle ultime generazioni (sottolineata dal fatto che il figlio vive con la moglie in un moderno appartamentino invece che in una tradizionale casa giapponese come il padre) sia le difficoltà economiche della gente comune (tema anche questo già affrontato in passato, come, ad esempio, in “Figlio unico” del 1936). Il film è a colori, come i precedenti a partire da Fiori d’equinozio del 1958; una curiosità: Ozu ha confessato che il bilanciamento di luce e tonalità dei colori lo ha appreso da Kazuo Miyagawa, il direttore della fotografia del suo amico Mizoguchi.

Nel film sono presenti le tipiche scene e situazioni care a Ozu quali riunioni tra amici (qui interpretati da Nobuo Nakamura e Ryuji Kita) che si prendono in giro con garbata ironia, solenni bevute e ubriacature, treni e/o stazioni, bar e trattorie, inquadrature statiche quali metafore (o come titoli) delle sequenze successive, rievocazione dei tempi di guerra e così via. Il tono generale è quello della commedia, anche con momenti spiritosi, dal ritmo lento ma inesorabile, ma il tono fondamentale è amaro e malinconico e termina con una contemplazione del vuoto, sinonimo della solitudine tanto più commovente perché consapevolmente voluta dal padre che si sacrifica dolorosamente per il bene della figlia in nome di un superiore senso di giustizia.

Il cinema di Ozu si può definire “concreto” perché mostra la realtà per quello che è, non per quello che si vorrebbe (o si tema) possa essere ed i personaggi sono autenticamente “umani” ovvero mai completamente “buoni” o “cattivi” ma tutti con i loro personali dubbi e difetti. Nel descrivere la quotidianità della gente normale il regista usa la sua personalissima tecnica che elide le scene salienti per mostrare, più che la successione di eventi, le modificazioni e l’evolversi degli stati d’animo dei personaggi a seguito di tali eventi le quali sono il vero motore della storia: è una scelta intimista ed anti spettacolare, ma con il crisma dell’autenticità che è un connotato essenziale dei film di Ozu.

Come sempre, alla riuscita del film hanno dato un valido contributo gli eccellenti attori, alcuni dei quali abituali interpreti dei film di Ozu, fra i quali sono da segnalare, Chishu Ryu, Nobuo Nakamaura, Ryuji Kita, Keiji Sada, Haruko Sugimura.

Il gusto del sakè conclude degnamente, anche se purtroppo prematuramente, la carriera di Yasujiro Ozu ed è l’ennesimo capolavoro di questo grande regista anche se, personalmente, gli preferisco Tarda primavera per la maggiore compattezza narrativa e, soprattutto, per la straordinaria prova della grande Setsuko Hara che con un’acuta e sottile gamma espressiva aveva incarnato, più che interpretato, con sensibilità il personaggio della figlia.

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