Regia di Alberto Lattuada vedi scheda film
Parte come un buon melodramma anni '50, ma dopo non molto lascia i toni drammatici e persino lirici per passare a qualcos'altro. Il film infatti vira su una violenta critica sociale delle classi agiate che popolano l'albergo, che vengono ritratte, con vera cattiveria, come una passerella di individui ipocriti e sciocchi, oltre che maligni e vanitosi. Le donne, in particolare, sono vipere, pettegole, e scialacquatrici di patrimonio. Questo ritratto sociale prende così tanto posto che porta via terreno a quella che all'inizio sembrava essere la protagonista. Persino Raf Vallone, accreditato nei titoli come attore principale, non lo è affatto, e si ritrova relegato in una parte tutto sommato secondaria.
Nel suo complesso è un film didascalico e a tesi marxista, che ne fa perdere molta della forza drammatica. La tesi sarebbe questa: la classe agiata è parassita, corrotta e marcia fino al midollo, ed è dominata dal capitale; andrebbe quindi spazzata via da personaggi come il sindaco comunista, anche operaio, che praticamente è l'unico personaggio positivo assieme alla mamma della bambina.
Il personaggio del riccone truffatore è dichiaratamente (dai dialoghi) il simbolo del capitale che opprime i poveri, ma che essi adulano per averne piccoli vantaggi. Le suore, dal canto loro, sono delle arpie arcigne che spaventano la bambina e non smettono mai di chiedere quattrini.
Secondo me questo film è una grande occasione perduta per analizzare – senza discorsi politici – la difficoltà di reinserimento e redenzione di una ex-prostituta, a causa delle male lingue di donne pettegole e maligne e di uomini fintamente virtuosi. Coloro che vogliono lapidare l'adultera hanno peccati peggiori dei suoi (è già successo un episodio del genere 2000 anni fa). Lattuada avrebbe avuto il mestiere per dirigere un ottimo melodramma, ma il regista col broncio (così lo definisco io) si sbilanciò a girare un film praticamente politico, che ne sciupa il fascino. Peccato.
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