Regia di Alberto Lattuada vedi scheda film
Per la misteriosa ed inquieta Anna Maria, il soggiorno estivo al mare ha più di una valenza. Deve recuperare il rapporto con la figlioletta che studia dalle monache, ha bisogno di quella pace introvabile nel brulicante mondo del quotidiano e vuole cambiare vita. La spiaggia è l’illusione che si possa esistere al di là della consuetudine alla quale ci si è abituati, è la speranza che oltre il comune imperturbabile ci sia una nuova stagione. Per certi versi, non sembra neppure un film italiano degli anni cinquanta. E perciò lo si può considerare, a ragione, uno dei prodotti più scandalosamente sottovalutati di quel periodo. Incentrato sulla figura di una donna (caso raro per una pellicola nostrana), possiede più di una qualità e lo si più iscrivere in un determinato filone abbastanza inconsueto per la nostra cinematografia. C’è una violenta critica nei riguardi dell’ipocrisia della borghesia italiana, raffigurata nei suoi aspetti più trucidi e variegati. Le penne acuminate ed agre di Charles Spaak, Luigi Malerba e Rodolfo Sonego (nonché l’occhio attento e spudorato di Lattuada) non risparmiano niente e nessuno: l’hotel che fa da sfondo alla storia è il microcosmo tremendo in un cui si annidano i peggiori esemplari del ceto sociale che si mette alla berlina. Da quelli arricchiti che hanno fatto i soldi prima del boom ai parassiti delle dive straccione che rispondono alla posta del cuore, dai lunatici capricciosi ai venerabili industriali, ci sono tutti, e tutti sono accomunati da un minimo comune multiplo essenziale: il pettegolezzo.
Ognuno si affida all’altro per conoscere gli scheletri nell’armadio della donna della porta accanto, tutti si comunicano le ultime informazioni con il trionfo di chi ha scoperto l’America. Il circolo vizioso regge sulla menzogna, e la vittima sacrificale dei sadici borghesi, la nostra Anna Maria, è il mezzo per annientare la noia e la frustrazione (ricchi e silenziosamente infelici, sembrano dirci gli autori – “abbiamo quattrini, salute e tutto!” esulta sonora la moglie arricchita di quello dei frigoriferi). Con la fisicità che si ritrova, quei capelli biondi che incorniciano il glaciale volto, Martine Carol sarebbe potuta essere una Lana Turner della situazione, ma nel suo specchio della vita si riflette il viso di una donna segnata, dagli occhi troppo languidi che hanno visto troppe cose e che vogliono dimenticare per voltare pagina. Ricominciare da capo è più che difficile quando ti ritrovi a che fare con gentaglia del genere. Meglio andare via, no? Ma resiste, finché può, la nostra Anna Maria. Quando il vaso si rompe con la goccia della cattiveria, il film vira su territori amarissimi che ben si addicono al mèlo. Il pianto della bambina è di agghiacciante potenza: “i bambini devono abituarsi all’ingiustizia”, dice il più potente tra i villeggianti, figura avvolta nell’ombra che contraddistingue chi ha tanto di materiale e poco di etereo. È lui la sorpresa finale, è lui che, forse, cerca di cambiare se stesso partendo dagli altri.
A conti fatti, questo atipico racconto di una formazione anomala (non c’è il passaggio dalla giovinezza alla maturità, quanto la consapevolezza di mutare il corso delle cose) può ben aspirare allo status di agrodolce mèlo. Fino a che punto è una fiaba? Non la è. Ma ha una sua morale, sempreverde: mai stare a sentire gli altri, specie se ti fa sentire “la metà di niente”, come il personaggio di Catherine Dunne. Fossimo nei pressi di uno dei film più sottostimati, sottovalutati, meno visti, meno considerati, meno apprezzati, più intriganti di un cinema italiano che, almeno negli anni cinquanta, si divideva tra il fellinismo e il totòismo, il viscontismo e il sordismo? La spiaggia è un film sentimentalmente scomodo, enigmaticamente affascinante, intimamente sommesso, violentemente politico. E poi, notate: la protagonista è palesemente una che fa la vita. Ma c’è mai qualcuno che pronuncia il termine “prostituta”? Altri tempi. Da recuperare subito.
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