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La grande illusione

Regia di Jean Renoir vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La grande illusione

di hupp2000
10 stelle

Capolavoro indiscusso di Jean Renoir, ma anche della cinematografia francese nel suo insieme. A poco meno di 80 anni dalla sua uscita, “La grande illusion” conserva intatti il suo fascino e l’alto linguaggio con cui esprime i valori umani messi in scena. Dopo tanto tempo, la struttura dell’opera non scricchiola in alcun punto, la rapidità e la scioltezza della narrazione lasciano a bocca aperta anche lo spettatore più smaliziato e amante di un cinema più moderno, uno spettatore difficile da accontentare senza azione ed effetti speciali. Il film si divide in tre parti. La prima è ambientata in un campo di prigionia tedesco durante la Prima Guerra Mondiale, il classico lager che ospita detenuti di varie nazionalità. Tra questi, un gruppo di ufficiali francesi viene trattato con palese riguardo per volontà del comandante von Rauffestein (Erich von Stroheim), militare tutto d’un pezzo, anche se fisicamente fatto a pezzi in vari combattimenti. Costretto ormai ad un ruolo di retroguardia in quel campo di prigionia, ravvisa nel capitano de Boeldieu (Pierre Fresnais) una figura del suo rango, a lui più vicina di quanto non lo siano i suoi stessi uomini e, manco a dirlo, la ciurma dei detenuti. De Boeldieu e altri due ufficiali, il capomastro Maréchal (Jean Gabin) e il banchiere ebreo Rosenthal, stanno preparando un’evasione. Alla vigilia della fuga, vengono trasferiti in un altro campo e il piano va a monte. La seconda parte si svolge in un altro lager, dove i tre ufficiali si trovano nuovamente confrontati al comandante von Rauffenstein. Se nella prima parte, raccontando i preparativi dell’evasione, il film aveva tratteggiato con acume i caratteri e la psicologia dei vari personaggi, nella seconda ne approfondisce le ambigue relazioni, diventa corale, lascia esplodere conflitti sociali, di classe e di razza, suggerisce forme di solidarietà trasversali, porta alle estreme conseguenze la fedeltà a codici militari, ma anche culturali e umani. Questa volta, infatti, Maréchal e Rosenthal riescono ad evadere grazie al sacrificio personale del capitano de Boeldieu, abbattuto da un comandante von Rauffenstein lacerato quanto inflessibile. Terza parte o, più esattamente atto terzo: la lunga erranza di Maréchal e Rosenthal in disperata fuga verso il confine con la Svizzera. Un viaggio fisicamente devastante, nella neve e senza cibo. Rosenthal si sloga una caviglia, diventa un peso per Maréchal e il rapporto si esaspera. Giunti al limite della resistenza, trovano rifugio presso una contadina tedesca, vedova di un soldato caduto al fronte e madre di un bambino. Nei lunghi giorni di attesa del momento opportuno per proseguire, tra la donna e Maréchal nasce un sentimento intenso, che modifica profondamente i due personaggi. Commoventi promesse d’amore ma, un bel giorno, i due Francesi prendono il volo e raggiungono la libertà.

 

Come racconta lo stesso Jean Renoir in “Ma vie et mes films” (ed. Flammarion, 1974), la realizzazione di « La grande illusion » si rivelò impresa assai ardua. Bussando di porta in porta, al regista occorsero tre anni per trovare un produttore. Vi riuscì grazie all’autprevole intervento di Jean Gabin, la cui notorietà nella seconda metà degli anni ’30 non conosceva rivali. In questo film, incarna il personaggio che più gli si addice nella prima fase di una fortunatamente lunghissima carriera, quello del Francese medio che, per quanto medio, si sente al di sopra della media. Dietro l’immagine dell’uomo burbero e irascibile si cela un animo sensibile, una filosofia di vita rude, disincantata, ma aperta al cambiamento. Nel corso del film, non esita a contraddirsi e a modificarsi radicalmente ogniqualvolta la realtà lo costringe ad aprire gli occhi. Così avverrà nel suo rapporto con de Boeldieu, l’odiato militare di carriera, per giunta nobile e non insensibile al fascino e alla complicità di classe con il comandante von Rauffenstein. Poco prima dell’evasione, quando il capitano dimostra tutto il suo coraggio e la sua umanità, Maréchal gli propone di darsi del tu. La risposta di de Boeldieu è ineccepibile : « Io do del voi a mia madre e a mia moglie ». Durante la fuga, sfinito e in collera contro Rosenthal che non riesce quasi più a camminare, Maréchal sbotta : « Sei solo un peso morto, una palla che mi trascino al piede ! E poi, non ho mai sopportato gli Ebrei, capito ?! ». Poco dopo, torna eroicamente indietro e salva il compagno da una morte sicura. Altro cambio di registro con la contadina tedesca (unica ma significativa presenza di un personaggio femminile nel film) che ospita i due fuggiaschi. Dapprima diffidente e scorbutico, di fronte all’onestà e alla gentilezza della donna, Maréchal abbandona gradualmente la sua corazza, diventa tenero e generoso. D’altronde, quasi tutti i protagonisti del film tradiscono una umanissima ambiguità, che raggiunge il suo apice nel rapporto tra il comandante von Rauffenstein e il suo prigioniero de Boeldieu. Fin dal primo incontro, Erich von Stroheim si rivolge a Pierre Fresnais dicendogli :  « Ho conosciuto un de Boeldieu, un conte de Boeldieu ». Risposta : « Certamente, era mio cugino ». La complicità s’installa al di là delle nazionalità e della guerra. Non sarà però sufficiente ad evitare una resa dei conti imposta dal patriottismo e dai rispettivi ferrei ruoli. « La grande illusion » è certamente un film anitimilitarista, ma non per questo anti-patriottico. Basti pensare alla scena ormai da antologia nella quale un prigioniero inglese travestito da donna, all’annuncio della riconquista della cittadina di Douaumont da parte dell’esercito francese, si toglie la parrucca, si sbottona il corsetto e intona la Marsigliese, seguito via via da tutti gli altri detenuti. Intervistato trent’anni dopo dalla rivista americana « The New Yorker », Jean Renoir dichiarerà : « Nel realizzare La Grande Illusion, ho voluto essere contro la guerra, ma favorevole all’uniforme ». Un’affermazione che la dice lunga sulla libertà di pensiero e lo spirito di tolleranza che animavano il regista. A dispetto dell’enorme successo della pellicola nel 1937, infatti, il film suscitò nel corso degli anni accese controversie. La giuria della Mostra Cinematografica di Venezia non osò assegnargli il Leone d’oro, limitandosi ad un premio di consolazione inventato lì per lì (Premio per il miglior complesso artistico – sic !). Mussolini fece ritirare la pellicola dalla circolazione, mentre Goebbels si accontentò di far tagliare le scene in cui l’Ebreo Rosenthal appariva generoso e troppo umano per i gusti nazisti. Dopo la guerra, sarà il giornalista francese Georges Altman, comunista ed ex-partigiano, a bollare l’opera come antisemitica ! In un suo interessante e prezioso  testo apparso nei « Classiques du cinéma » (ed. Balland, aprile 1974), François Truffaut si esercita a spiegare il senso del titolo del film, scelto da Jean Renoir solo al termine delle riprese. Si noterà che nessuno dei protagonisti, siano essi prigionieri o tedeschi, sembra nutrire qualsivoglia illusione sul futuro e tanto meno sull’esito della guerra. Il più esplicito di tutti è senza dubbio Erich von Stroheim nel dire a Pierre Fresnais che, qualunque sia l’esito del conflitto, la loro cultura e i loro sorpassati ideali saranno sepolti una volta per tutte, cancellati per sempre. « La grande illusion » va colta – suggerisce François Truffaut – nelle ultime battute scambiate da Maréchal e Rosenthal al momento di separarsi in prossimità della frontiera svizzera. Maréchal : « Il faut bien qu’elle finisse cette putain de guerre... en espérant que c’est la dernière » (Dovrà pur finire questo cavolo di guerra... sperando che sia l’ultima). Rosenthal : « Ah, tu te fais des illusions » (Ah, ti fai delle illusioni).

 

Credo che non sia esagerato affermare che la colonna sonora del film è duplice. Da un lato, i vari motivi popolari intonati dai prigionieri, dalla Marsigliese al Piccolo naviglio e altri temi d’epoca, senza dimenticare il concerto sconclusionato di decine di flauti utilizzati come atto di protesta volto a distrarre i soldati tedeschi. Le musiche originali di Vladimir Cosma assumono rilievo solo nella seconda parte del film, crescono lentamente e finiscono con il lasciare un segno inconfondibile. Mi è impossibile terminare queste osservazioni senza evocare la sbalorditiva prestazione di Erich von Stroheim in uno dei suoi ruoli più indimenticabili. Le menomazioni fisiche subite sul campo sembrano averlo ingigantito. La sua debolezza lo ha reso più duro e glaciale nei comportamenti. E’ un uomo sconfitto ma fiero. Il suo sguardo e i suoi gesti atterriscono, ma nascondono una profonda umanità, anche se ormai completamente disillusa. La sua presenza scenica è impressionante, degna del carisma di un Orson Welles o un Peter Lorre e, di lì a pochi anni, dello stesso Jean Gabin.

 

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