Regia di Jean Renoir vedi scheda film
La grande illusione è quella dell’attuazione di una concordia tra i popoli. Quando il secondo conflitto mondiale era solo una recondita ipotesi, Jean Renoir portò sullo schermo un apologo morale (nel senso più profondo del termine) il cui messaggio era chiaro e tondo, semplice e più che condivisibile. Peccato che qualcuno abbia ignorato il suo monito artistico. Di lì a qualche anno (se non mese) sarebbe scoppiata la più devastante guerra che l’umanità ricordi. Ho visto il film insieme a mio nonno. L’aveva visto quando aveva qualche anno più di me, alla fine degli anni quaranta, durante il suo leggendario (per noi famigliari, per quanto ce ne ha parlato) servizio militare a Trieste. Era il periodo in cui rimaneva abbagliato di fronte a Luci della città di Chaplin e si divertiva con Cinque a zero con Angelo Musco. In tempi più recenti si è affezionato a John Wayne, non so quante volte abbia visto I quattro figli di Katie Elder. Comunque, tornando al film, l’ho visto singhiozzare. Nonostante la sua scorza fiera e pacifista, è un film venato di una malinconica vena disperata. La storia vale in un certo senso come funzione per far passare il messaggio: ci sono due aviatori francesi che dopo vari tentativi di fuga vengono rinchiusi in una fortezza controllata da un vecchio capitano tedesco in disarmo. Il fulcro del discorso è la rappresentazione di un mondo ideale, che può concretizzarsi solo se l’uomo vorrà dimenticare il significato della parola “guerra”. «Che c’è di giusto nella guerra?» si chiede uno dei personaggi: un portaparola dell’autore (Renoir, regista che in sede di sceneggiatura si è fatto aiutare da Charles Spaak), una domanda lucidamente sconsolata dalla risposta inevitabile. Per capire il dolore che essa procura, basta la scena che precede l’amaro finale, con il ritorno a casa e i pensieri della donna: «Troppo tempo, troppo tempo è passato… Tu non saprai mai la felicità». La felicità è data per latitante da tanto tempo. Ora l’obiettivo è conseguire una concordia generale, in cui le classi sociali dimentichino le proprie stupide appartenenze e si uniscano affinché tutto muti verso la ragione. Memorabile la scena del coro della Marsigliese, se vuoi anche con un risvolto curioso (il militare vestito da donna): «Sebbene non partecipi alla vostra attività, complimenti maresciallo: è molto chic», afferma sinceramente un compagno di leva, a riguardo della vicenda. Peccato che poi la faccenda abbia portato i nostri due eroi nella terribile fortezza, che ha nell’ufficiale e gentiluomo Erich Von Stroheim il suo crepuscolare e dolente carceriere («Io ero un combattente, ora sono un funzionario»), metafora umana che riflette sulle conseguenze della guerra vissuta. E Jean Gabin e Pierre Frasney spiccano il volo verso l’immortalità.
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