Regia di Jean Renoir vedi scheda film
Prima Guerra Mondiale. Il capitano de Boeldieu (Pierre Fresnay) e il tenente Marèchal (Jean Gabin), ufficiali dell'aviazione francese, vengono abbattuti col loro aereo durante un'operazione e fatti prigionieri dai tedeschi. Dopo qualche mese trascorsi in un campo di prigionia, in un clima di cordiale rispetto tra le parti e non prima di aver progettato qualche piano di fuga, i due vengono trasferiti insieme al tenente Rosenthal (Marcel Dalio) nella fortezza di Wintesborn comandata dal Maggiore von Rauffenstein (Erich von Stroheim). Nonostante il rapporto di umana comprensione che si instaura tra carcerieri e carcerati, il pallino di questi ultimi rimane sempre la fuga. Sarà grazie al sacrificio dell' aristocratico de Boeldieu che Marèchal e Rosenthal riusciranno a fuggire e sarà per merito di una contadina tedesca (Dita Parlo), che in guerra ha perso tutta la famiglia, che i due riusciranno a rimanere nascosti fino al momento propizio per incamminarsi oltre il confine che conduce in Svizzera.
"La grande illusione" è un capolavoro per stile del racconto, contenuti etici e bravura degli attori (tra i quali menzionerei soprattutto il sorprendente Erich von Stroheim). Il film di Jean Renoir mostra le gesta di soldati che sanno riconoscersi più come uomini in uno stesso spazio ostile che come nemici impegnati su fronti contrapposti. E' considerato a ragione un film manifesto contro ogni logica di guerra, non perchè ce ne mostra il corollario di distruzione e morte che ad essa è irrimediabilmente legato, ma per come ne fa intendere l'aspetto tristemente sistemico attraverso il modo naturale con cui ognuno vive la sua particolara condizione all'interno delle più generali strategie di guerra, per il fatto che il rispetto reciproco che si instaura tra carcerieri e carcerati sembra chiaramente corrispondere al rispetto di un codice comportamentale sacralizzato dal tempo e dalla storia. Non c'è niente di più agghiacciante che rappresentare un evento tragico come la guerra mostrandocene esclusivamente gli aspetti "umanizzanti" che possono ingenerarsi sul fronte. Secondo me è un modo per rafforzare l'idea che la guerra è una triste abitudine e che alle pedine che vengono usate per portarla a compimento non resta altro da fare che mitigarne gli effetti dolorosi cercando di fraternizzare tra di loro, di riconoscersi figli delle stesse paure, di far emergere l'uomo sopra tutto e tutti, oltre ogni bandiera e ogni differenza di classe. Su questo ha investito Jean Renoir, sull'umanesimo che si autoalimenta nella comunanza di uno stesso spazio e della medesima condizione morale, piuttosto che sull'odio generato dall'istintivo spirito di sopravvivenza. Ciò non impedisce alla fuga di rimanere un'idea fissa per i prigionieri, una cosa che si pone in una posizione altra rispetto all'istintiva solidarietà che nasce tra corpi spossati dagli eventi bellici e accomunati dalla medesima voglia di evadere dalle disumane incombenze imposte dalla guerra : riguarda la coscienza viva di un idea assoluta di libertà, la volontà che si può sempre guardare avanti con rinnovata speranza, sfidando i colpi di fucile degli "amici" carcerieri che per "senso del dovere" si vedranno costretti a sparare. Come farà il fiero e cavalleresco von Rauffenstein, emblema dell'uomo prigioniero del suo ruolo e della sua casta, che colpisce mortalmente "l'amico"de Boeldieu, aristocratico come lui e specchio di una cesura storica che vede entrambi fuori dal futuro. L'ufficiale tedesco riconosce nella fine del collega francese la sua stessa fine e la tragicità della sua condizione morale riflette il decadimento di un sistema di valori che si trascina stancamente per puro "senso del dovere", la fine di un mondo che aspetta di perire con la Grande Guerra. La grande illusione non può che essere un mondo senza più guerre e la pace come valore che permea un idea alta di uomo e della politica. Stiamo ancora illudendoci. Un capolavoro di misurata eccellenza etica.
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