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Assassini nati

Regia di Oliver Stone vedi scheda film

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giansnow89

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La recensione su Assassini nati

di giansnow89
9 stelle

Un viaggio lisergico fra il crimine e il racconto di esso.

Scrutando in filigrana il momento chiave dell’intero film, ovvero l’intervista del giornalista Gale al pluriomicida Mickey, ho intravisto la figura spensierata e archetipica di Barbara D’Urso. Stessi ammiccamenti, stesse moine, le medesime pause teatrali studiate a tavolino, un identico ricorso tattico alla reclame pubblicitaria per instillare drammaturgica attesa nello spettatore. La stessa presunzione di poter trattare le più sporche nefandezze senza il menomo pudore, poiché tanto c’è il consenso della vasta platea televisiva. Dai ludi gladiatorii in poi non si nota un’evoluzione in tal senso: semmai sono mutati gli attori, dai gladiatori ai condannati a morte in pubblica piazza all’omicida intervistato in gattabuia del nostro film, su su fino al vice-premier Salvini imbellettato e vestito con la camicia buona per la Messa della domenica; tuttavia, i manovratori dietro le quinte, astuti, cerchiobottisti, trasformisti, sono rimasti sempre gli stessi, e così gli spettatori, non meno sadici oggi che nelle arene romane. Il film di Stone ha una confezione evidentemente grottesca, e mira ad ingigantire responsabilità e colpe degli organi d’informazione. Tuttavia, è perlomeno curioso registrare come ci sia ormai molto poco di grottesco, se guardiamo al caravanserraglio mediatico della nostra Italia attuale. Il dursismo, coi suoi freaks ammansiti ed ammaestrati ora a starnazzare come polli sgozzati, ora a rantolare la propria commozione, è solo l’epifenomeno più eclatante di quella che è una realtà più consolidata. Un brodo primordiale dove sono rimestati tutti insieme appassionatamente, politici, nani e ballerine, opinionisti da bar, intellettuali, braccia rubate all’agricoltura, vittime, carnefici, tutti immolati nel nome della ragion di stato del Dio share. Figurine ingiallite che si succedono senza posa all’interno di quell’adorabile scatola demoniaca che è la televisione. Miti passeggeri che ballano una sola estate per essere poi rottamati. Burattini che prendono vita solo perché ci sono burattinai a stabilire che sono vagamente interessanti. I due novelli Bonnie e Clyde nel contesto del film di Stone sono due personaggi evidentemente secondari, la cui valenza ai fini del racconto non è superiore a quella dell’orso della Coca Cola. Sono due prodotti di massa come tanti altri. Questo film mi fa impazzire perché, valendosi anche dell’integrazione indispensabile di una tecnica e di una messa in scena rapsodica da far venire il mal di mare, analizza e anticipa come nessun altro - forse solo il Truman Show, ma nel lavoro di Weir il manto fiorito della poesia rende più annacquato il messaggio – il rapporto schizofrenico e turbolento fra masse, icone e sacerdoti del sacro rito televisivo.

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