Regia di Robert Altman vedi scheda film
“Come diavolo hai fatto a mollare l'ufficio?”
“Oh, magari fossi così bravo a giocare come lo sono a squagliarm...”
“Aaah, ce l'hai la faccia di quello che è sempre fuori stanza, oppure in conferenza, l'ho capito appena t'ho visto!”
“Ahahah!”
“T'ho capito, io! Comunque fra pochi minuti avrai tanti soldi da vivere di rendita per tutto il resto della tua vita.”
“Senti, su chi giochiamo?”
“20 a 1, vittoria sicura, soldi a strafottere, sai?”
In una sala da gioco di Los Angeles, precisamente ad uno degli innumerevoli tavoli da poker, lo scanzonato Charlie Waters (Elliott Gould) mette abitualmente in mostra le sue doti; questo a danno di molti avventori, ma anche a suscitare l'ammirazione di Bill Denny (George Segal), col quale stringe amicizia al bar, riscontrando reciproche affinità umoristiche e nella passione per il gioco d'azzardo.
Il giorno successivo è già il momento di buttarsi insieme a capofitto in una girandola di scommesse: corse di cavalli, incontri di boxe, poker clandestino, anche una partita dei Lakers, se ci dovesse rientrare. Ma presto emergono le differenze fra i due nuovi amiconi: Charlie è un inguaribile gambler che vive alla giornata a forza di scommettere ed è coinquilino di due prostitute, Barbara (Ann Prentiss) e Susan (Gwen Welles); Bill, tutto sommato, è un individuo più abitudinario, separato dalla moglie, con un lavoro regolare per una rivista e un approccio più serioso al mondo dell'azzardo.
In concomitanza con l'improvviso dileguarsi di Charlie, Bill deve ripagare il suo debito contratto col pittoresco bookmaker Sparkie (Joseph Walsh). Con l'acqua alla gola, Bill fa le valigie per una rapida incursione a Reno, in Nevada, piccola capitale del casinò, accompagnato all'ultimo proprio da un redivivo Charlie con una sola possibilità: vincere.
“California Poker” è la seconda regia firmata Altman nel 1974, essendo uscito a pochi mesi di distanza da “Gang”, pellicola di tutt'altro genere. Qui il regista nativo del Missouri mette mano ad una sceneggiatura recapitata alla Columbia Pictures, opera di un ex-bambino prodigio della recitazione in varie serie TV, ovvero quel Joseph Walsh presente in un cameo. La storia alla base di “California Split” (titolo originale che fa riferimento all'high-low split, variante del poker dove il bluff assume pesante importanza) è ispirata ai reali problemi col gioco d'azzardo affrontati da Walsh e, almeno in prima battuta, doveva essere trasposta su schermo dalla MGM, con Spielberg in cabina di regia e con Steve McQueen come protagonista.
Non se ne fece nulla ed è qui che entra in gioco Altman, testa matta con cui Walsh si sarebbe pure risparmiato di collaborare, viste le continue improvvisazioni che caratterizzavano lo stile del regista; la scena finale, in particolar modo, è diversa da come la sceneggiatura la prevedeva, ma la “colpa” è anche di quell'istrione indomabile che risponde al nome di Elliott Gould (peraltro grande amico di Walsh), al suo terzo lavoro con Altman e con ampia libertà di improvvisare, mentre il posato George Segal è comunque bravo da coprotagonista a suo modo antitetico.
“California Poker” non è ancora certo il film corale di cui Altman sarà maestro, ma il duo di protagonisti funziona bene in sinergia: due gambler che diventano subito amici ma che non sono mai davvero uguali, mai totalmente in sintonia, due espressioni diverse di ludomania, ragione di vita o ragione di sopravvivere.
Oltre al vero e proprio esordio del sistema di ripresa audio a otto tracce, grande innovazione e cifra stilistica di Altman, che con l'overlapping rendeva realisticamente confusi e sovrapposti molti dialoghi, sono da citare alcuni camei: il campione di poker Amarillo Slim nei panni di se stesso, un languido Jeff Goldblum alle prime apparizioni cinematografiche e Bert Remsen nei panni di un travestito, poco dopo esser stato un rapinatore zoppo e truce in “Gang”.
I film di Altman hanno sovente messo in difficoltà le case di distribuzione, “California poker” non esente: come lanciarlo? È una commedia, certo, ma non solo: ha qualche momento amaro, qualche nonsense totalmente estemporaneo, ma è anche una riflessione sul gioco d'azzardo (rapida, ma aderente al vero) come morbo compulsivo, praticato indipendentemente dal risultato e dalle condizioni economiche, ruota della fortuna del sogno americano. Al di là dell'ottimo intrattenimento, “California Poker” è per tutti i motivi sopracitati un film non scontato, che finì col guadagnare relativamente poco e con l'essere poi oscurato dal successivo “Nashville”.
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