Regia di Renato Castellani vedi scheda film
Commedia popolare. Ambientata alle pendici del Vesuvio. Un giovane militare congedato e disoccupato, una bella ragazza innamorata di lui. Basterebbero questi elementi, seppure posti casaccio, per parlare di un ottimo film. Ma Due soldi di speranza è qualche cosa in più e ha una marcia in più. Arriva in un periodo in cui il neoralismo muta, e dalla grande fortuna avuta nel quinquennio precedente, va ormai serenamente esaurendosi, pronto e prossimo, come tutti i generi cinematografici sfruttati fino all'osso in Italia (accadrà lo stesso col western, col poliziesco/poliziottesco, col thriller/giallo), ad imboccare la strada della ben più vendibile, nonché alimentare, commedia. Di drammatico, è bene rimarcarlo, v'è poco; v'è, piuttosto, la sensazione di un'amara consapevolezza, quasi il sintomo di un malessere che verrà (sociale e culturale), esorcizzato dai toni leggeri adoperati, mai eccessivi, spesso virati al puro grottesco, più che incentrati su un certo macchiettismo. Si pensi, in tal senso, al filo conduttore dell'intero racconto: il denaro (o due soldi, dato l'argomento), quella roba di verghiana memoria che muove il sole e l'altre stelle che si fa fine e mezzo in un solo tempo, collante e divisore di rapporti desiderati o solamente sopportati, subiti, semplicemnte presunti. La madre di Antonio che presta attenzione alla lettera del figlio finché non ha la certezza che, a essa, vi siano accluse le banconote promesse dal giovane; il bisogno e l'attenzione per una dote che non c'è, per un matrimonio che non può pertanto essere celebrato e, se è celebrato, come nel caso di una delle sorelle di Totò, ingravidata casualmente dallo scapolo mammà-dipendente, si rivela nient'altro che una sporca faccenda danarosa, utile unicamente a salvare le apparenze e a togliere la ragazza dal groppone della famiglia; il bizzarro ed efficacissimo finale, con il suo rimandare a un imprecisato futuro il pagamento di vestiti e accessori per la coppia di innamorati e per la famiglia di lui. Castellani, in tal modo, smaschera i facili riverberi di innata bontà di solito dipinti sulla pelle della gente di paese, riverberi rovesciati, portati all'estremo, contraddetti con la messa in scena di un materialismo e di un particolarismo più consono all'enigmatica e cinica città, quella città che resta sullo sfondo, terra promessa pronta a respingere il povero cafone di turno, pronta a confutare, però abracciando, la bonarietà, la serietà d'intenti dei suoi figli più piccoli, di quei paesani in cerca di fortuna.
Pur partendo dagli stessi tragici presupposti di un neorealimo assai più impegnato, il film di Castellani si avventura per un terreno più accidentato, lontano sì dalla commedia più spicciola, ma forse per questo più sincero, avvicinandosi a commedie popolari quali i vari Pane, amore e..., terreno in cui la bella Carmela pare presagire e suggerire, rappresentandola nei suoi innumerevoli "disastri", una Bersagliera ante litteram, lo stereotipo di una di quelle belle ma povere che negli anni Cinquanta imperverserà sotto diverse insegne.
In conclusione, possiamo parlare di un film riuscitissimo, solido, mai banale, ottimo a porre domande, ma non a fornire risposte, a mostrare ma non a dimostrare, percorrendo il sempre difficile filo della commedia annegata in un mondo ostile destinato a non mutare, a ripetersi, ad accartocciarsi sulla propria chiusura mentale e culturale, talvolta trasmutata in vero e proprio egoismo.
Memorabili la vicenda della zuffa seguita all'acquisto dell'autobus e la corsa in bicicletta di Antonio da un cinema all'altro di Napoli per portare in tempo le diverse bobine. Ciò dimostra una cattiveria di fondo, un essere uomo lupo dell'altro uomo che dovrebbe far riflettere, mentre, con un approccio ironico e scanzonato, riesce a far divertire.
Voto: 8.
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