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Due soldi di speranza

Regia di Renato Castellani vedi scheda film

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La recensione su Due soldi di speranza

di Antisistema
7 stelle

Vincitore di un Leone d’Oro a Venezia con Romero e Giulietta (1954) e di una Palma d’Oro a Cannes con questo Due Soldi di Speranza (1952), Renato Castellani, è stato uno dei pochissimi cineasti ad aver conseguito tale doppietta prestigiosa, ma il tempo ha molto ridimensionato il peso della sua figura, tanto che oggi il suo nome è finito nel dimenticatoio.
Dopo anni di gavetta, come critico cinematografico, aiuto regista e sceneggiatore, Castellani, debutta alla regia ad inizio anni 40’, tramite pellicole che percorrevano il filone calligrafico, trovando una svolta nella sua carriera, tramite l’adesione al movimento neorealista con i due film, Sotto il Sole di Roma (1948) ed E’ Primavera (1950), opera che rivelano un approccio alla realtà sfumato con toni leggeri ed positivi, che trovano in Due Soldi di Speranza, la sintesi più alta del proprio cinema, conseguendo un grande successo di pubblico.
Girato nel comune di Boscotrecase, situato alle pendici del Vesuvio, il regista si è avvalso di un cast di attori non professionisti, presi tra la gente del posto e di due protagonisti alle prime armi – Vincenzo Musolino e Maria Fiore -, che proseguiranno poi successivamente la carriera nel mondo del cinema.
La sceneggiatura dello stesso regista, si avvale della collaborazione di Titina De Filippo – sorella maggiore del noto attore Eduardo De Filippo -, che offre uno sguardo sullo spaccato sociale del piccolo paese di provincia, con un contorno sentimentale riguardante il legame tra il giovane soldato di ritorno dalla leva Antonio (Vicenzo Musolino) e la bella, ma vivace ed irruenta, Carmela (Maria Fiore), osteggiati entrambi dal padre di lei, Pasquale, ostile a tale relazione in quanto il ragazzo risulta privo di occupazione.
Un Romeo e Giulietta in salsa paesana verrebbe da dire, in cui il rapporto tra Antonio e Carmela, sovrasta un contesto sociale d’appartenenza, dato per assodato, senza indagare sulle cause della povertà, anche perché dall’inizio alla fine il tono della narrazione indugia su una leggerezza, che mette ogni difficoltà sullo sfondo.
Di andamento episodico, Castellani si diverte nel mettere in scena le disavventure di Antonio, alla ricerca perpetua di lavoro.
Ne troverà molti nel corso del film: autista di corriera, sagrestano, attacchino di manifesti del PCI, trasportatore di pellicole cinematografiche e donatore di sangue, tutti però naufragati miseramente, causa egoismo dei membri della cooperativa presi da manie di protagonismo, amanti mature inopportune e soprattutto per le intemperanze di Carmela, oscillante tra un’esagerata gelosia ed una sua lingua troppo lunga, incapace di mantenere dei segreti innanzi agli altri per via della sua civetteria.

 

Maria Fiore, Vincenzo Musolino

Due soldi di speranza (1951): Maria Fiore, Vincenzo Musolino


Tutte queste vicende spiacevoli, sono illustrate da toni ben lontani dal neorealismo puro, nudo e crudo, senza compromessi e molto amari nel mostrare la realtà, che qui sfuma quasi sempre nel sorriso e nella commedia, da qui l’etichetta dispregiativa datagli dai critici di “neorealismo rosa”, in cui l’impegno civile veniva messo da parte, a favore di storia leggere dalla visione positiva, dove l’ambientazione della vicenda, assumeva un carattere rustico ed agreste, ben lontano dall’asprezza della realtà.
In merito a tale punto, Castellani si dimostra coerente con l’idea di partenza, mantenendo il tono iniziale, lungo tutta la narrazione.
Le invettive negative sono quindi in parte ingiustificate, perché il regista non ha mai avuto chissà che ambizioni artistiche immortali, con tale opera, che comunque scorre in modo fresco ed abbastanza fluido, nelle vicissitudini tragicomiche del protagonista, il quale innanzi alle difficoltà della vita, risponde con divertito sorriso, accentuato da una deliziosa indole “vernacolare”, caricando ancor di più la vis comica del personaggio.
Nei progressivi batti, ribecchi e ribatti tra Antonio e Carmela, si consuma una pellicola, che punta tutto sul duo protagonista, contornandolo di volta in volta da personaggi secondari; per lo più macchiette caricate di un eccessivo folklore tra una madre dedita alle scommesse, padri fuochisti burberi e pettegole invasive, in cui emerge il prete del paese, un “sant’uomo” dedito a far proprie le difficoltà dei suoi fedeli, almeno finché queste non cozzano con il proprio credo religioso, arrivando a farlo trasformare in un inviperito reazionario, incapace di comprendere le ragioni dietro certi gesti.
Un neorealismo privo di denunzia, in cui la realtà, diviene un marchio “industriale”, sfruttato per cercare il successo di pubblico, depurando l’esistente da tutte le sporcature presenti nel mondo.
L’elogio all’arte dell’arrangiarsi, in cui le difficoltà giornaliere vengono accantonate in una visione ottimista dell’avvenire, ingenerata da un atteggiamento positivo, stufo del piangersi addosso e di non fare le cose, perché il futuro non è certo. La vita non è facile, ma a furia di razionalizzarla, si finisce con una non-vita all’insegna di una eterna disperazione, quindi tanto vale agire di “pancia” e poi si vedrà.
Una visione un po’ ingenua, ma non disprezzabile di certo, perché come afferma Antonio all’insegna di una fede molto popolaresca; “Se il Padre Eterno vuole che continuiamo a campare, ci deve pur dare da mangiare, altrimenti che ci mette a fare a questo mondo?”.

scena

Due soldi di speranza (1951): scena

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