Regia di Francesco Rosi vedi scheda film
Non poteva che essere Francesco Rosi il regista più adeguato alla trasposizione televisiva e in un secondo tempo cinematografica (grazie ad una riduzione che comunque non ha fatto perdere molto al film, se non qualcosa nella seconda parte) dell’opera più importante di Carlo Levi.
Memorie di un anno di confino e, in qualche modo, racconto di formazione intima e privata in una proiezione pubblica, il libro di Levi (per inciso, da me molto amato, per quel che può interessarvi) offriva molti elementi interessanti ai fini di un adattamento filmico, dalla rappresentazione delle genti lucane (e di conseguenze di tutti i contadini al di sotto di Eboli, immaginaria linea di demarcazione tra cristiani e non cristiani) all’esperienza del confino degli intellettuali del nord, dalla dimensione magica del meridione (Levi, borghese torinese, si ritrova a contatto con un mondo arcaico e dominato da malocchio, fatture, stregonerie e filtri d’amore, privo di qualunque tipo di razionalità settentrionale) alla vasta umanità del paese di Gagliano (l’unto ed ipocrita podestà, la misteriosa Giulia detta la Santarcangelese, il prete alcolista e reietto, i contadini superstiziosi che trattano il confinato come se fosse uno stregone).
Non ultima, la pittura praticata da Levi in cui si riflette la complessa profondità della terra lucana, che in realtà non è che emblematica della situazione di una certa Italia, non ancora del tutto risolta. Con il supporto fondamentale della splendida fotografia di Pasqualino De Santis, Rosi costruisce un film (assieme a Tonino Guerra e all’amico di vecchia data Raffaele La Capria) fedelissimo al libro dai dialoghi e agli episodi messi in scena, probabilmente non del tutto risolto per un eccesso di didascalismo che non rende del tutto la profondità dell’analisi politica, storica ed umana di Levi (sicuramente era difficile adattare specialmente la seconda parte del libro, costellata di riflessioni tutt’altro che scontate ma che si avvicinano molto di più al saggio che alla narrazione), ma che ovviamente corrisponde alle esigenze di un pubblico televisivo.
Dilatato volutamente quasi a raffigurare l’idea dell’esilio lento, ha un guizzo oserei dire lirico nel finale con la pioggia che accompagna l’addio alla Lucania di Levi (e qui una certa responsabilità va accreditata anche al buon Piero Piccioni, compositore assai sottovalutato in certe esperienze al di fuori della commedia). Il protagonista ha il volto e il corpo di Gian Maria Volonté, l’unico attore del suo tempo in grado di poter sostenere la parte con finezza, intelligenza, competenza e con una sobrietà ammirabile.
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