Regia di Carmelo Bene vedi scheda film
La struttura linguistica dell'opera è barocca definita dall'uso teatrale dei colori, dei filtri e delle lenti deformanti. Esempio unico nel cinema italiano che non ha niente da invidiare ai risultati più alti della sperimentazione del cinema mondiale, attingendo alla tradizione melodrammatica nazionale e alla ieraticità del cattolicesimo nostrano
Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può.
Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. (Carmelo Bene, Autobiografia di un ritratto in Opere, Bompiani Editore, 1995)
Il cinema di Carmelo Bene in generale, e Nostra Signora dei Turchi (sua folgorante opera d’esordio nel lungometraggio) in particolare, non ammette mezze misure: o l’adesione dello spettatore è totale, una condizione indispensabile per accedere pienamente – e indiscriminatamente - al “godimento” anche sensoriale che può derivare dalla visione di un’opera vitale e “fuori schema” come questa e che si determina credo solo se l’approccio avviene senza preconcetti fuorvianti o vecchi pregiudizi, e soprattutto senza alcuna titubanza anche “ideologica” verso le avanguardie più ardite del novecento (meglio se si conosce anche chi è stato e cosa ha rappresentato complessivamente l’Artista nel panorama culturale italiano della seconda metà del secolo scorso), oppure scatta l’insofferenza ed il “rifiuto”, elementi questi che purtroppo impediscono una valutazione obbiettiva del risultato che è poi anche il punto di partenza per poter formulare una competente analisi critica che può essere benissimo espressa persino in negativo, si badi bene, ma che “deve” poggiarsi necessariamente su argomentazioni “oggettivamente” circostanziate e non tendenziose per risultare davvero e “credibilmente” attendibile (e come tale, di qualche utilità anche per aprire un dibattito, una discussione o addirittura un “civile” scontro dialettico fra le parti).
Nostra Signora dei Turchi è infatti e prima di tutto, un’esplosione di narcisismo dichiarato il cui perno essenziale ( Jean-Paul Manganaro, Carmelo Bene: il corpo devastato, bATIK Film Festival, Perugia, 2001) è il corpo stesso dell’attore, il corpo attoriale, che investe nello stesso tempo il corpo dell’opera: proprio l’antico “corpus” (…) con un intimismo che inscena la passione come meccanismo motorio delle volontà possibili e immaginarie del corpo stesso, in quel suo farsi e disfarsi che da sempre è sembrato essere l’epicentro di ogni meccanica creativa, dal romanzo al cinema, passando attraverso il teatro. Meglio ancora, si potrebbe definire come l’apoteosi dell’ego estremizzato del regista/attore che, spostandosi dalle assi del palcoscenico allo schermo, viene amplificato ed enfatizzato a dismisura grazie alla capacità creativa posta nell’utilizzare “magicamente” il nuovo mezzo a disposizione, e proseguire così senza interruzioni o “frenate”, in quel percorso di egocentrica dissacrazione delle cose da sempre portato avanti con una carica di intelligente ed eversiva provocazione verso tutto e tutti, “perfidamente” demistificante, se vogliamo, ma di indiscutibile e significativa pregnanza, un eccellente lavoro “mediato” vitalizzato in questo caso da un tripudio di invenzioni sia sonore che visive (un turbinio di immagini, di riflessioni, di ammiccamenti, di borbottii apparentemente senza scopo e senza senso, ma che non risultano poi del tutto così alla resa dei conti, come giustamente osservò la critica dell’epoca, poiché nel film ogni cosa è invece precisa e riconoscibile, e anche l’esile filo conduttore del suicida che rivive la propria esistenza, parte da constatazioni di fatto banali ma che vengono poi caricate di una eccellente, baroccheggiante ricchezza espressiva. (…) Le matrici culturali meridionali, le secolari mescolanze arabe e bizantine consentono infatti a Bene una serie continua di recuperi significativi e importanti che non era facilmente immaginabile)che se solo si è capaci di disinibire la mente e di lasciarsi andare al flusso ininterrotto delle sollecitazioni creative e si accetta persino la logorroica, “esibizione” della parola (una vera e propria “banda a parte” che si sovraespone spesso alla musica e alle immagini, e che è poi l’elemento di maggiore “riconoscibilità” stilistica di questo Autore anche nella traslazione cinematografica della sua arte) è possibile apprezzare veramente fino in fondo. Al di là delle “scoperte” e dei sussulti, del divertimento e delle riflessioni, è infatti proprio lo specifico filmico il mezzo e la chiave per affrontare nella giusta ottica e prospettiva questa insolita escursione principalmente estetica, perché con Nostra Signora dei Turchi Carmelo Bene affronta un’esperienza sinestesica molto complessa che mette in crisi la discrezione e la discontinuità tecnica del cinema tradizionale, che in fase di ripresa e poi di montaggio distingue e separa le varie inquadrature per poi unirle in una continuità illusoria. Lui propone invece e al contrario, una simultaneità di impressioni visive e sonore, un amalgama sensoriale (…) accentuato dall’asincronismo. (…) Tecnicamente funziona ancora la distinzione tra una inquadratura e l’altra, ma per come sono costruite le cose, la percezione porta ad impastare fra loro ciò che è separato, producendo qualcosa come una “sovrimpressione” mentale. In altre parole, Bene tende a mettere una cosa dentro l’altra invece che una cosa dietro l’altra. E poiché ciò che mette sono materiali fra loro in contraddizione cromatica, culturale, cronologica, perviene a un continuum di dissonanze. L’esperienza sensoriale dello spettatore è così sollecitata e rivitalizzata da un’ininterrotta sequenza di fuochi d’artificio. (Adriano Aprà, Carmelo Bene oltre lo schermo in Per Carmelo Bene, Linea d’ombra, 1995).
Come tragica farsa della vita interiore (o della solitudine) di un personaggio-situazione, o meglio di una situazione che si fa personaggio – sono dichiarazioni dell’autore rilasciate a suo tempo alla stampa -, questo mio film è un’opera di autocommiserazione. Quanto alla storia, favola o storiella che vi si narra dentro, potrete usufruirne a piacimento e farla diventare ciò che vorrete che sia, avete assoluta libertà di azione e di interpretazione. Film dunque tutto vissuto in primissimapersona, come queste parole lasciano ben comprendere e dedurre, ma che è diventato anche il terreno ideale non tanto per un confronto, quanto per una vera e propria sfida originale e ben pilotata, tra “l’essere” (nel mondo, nell’arte, nello spettacolo in genere, cinema compreso) dell’autore, e tutto ciò che invece a lui è sempre stato “estraneo”, fuori dalla sua comprensione, e come tale, addirittura contestabile.
Si spiegano così le iterazioni, le dilatazioni, le ridondanze che caratterizzano quest’opera e ne rappresentano indubitabilmente la sua ineguagliabile forma e il suo stile prepotente e imperioso, quasi come se Bene sentisse la necessità di ribadire la sua superiorità sul resto del mondo, ma fosse costretto a farlo come replica e difesa alla dimostrata impossibilità di un equilibrio, di un’armonia fra il mondo stesso e la sua individualità vanitosa e autocompiaciuta (Bruno Torri, Cinemasessanta n° 75-76 del 1970).
La vita è sogno (e incubo), sembra allora voler ribadire il regista con questo suo debutto in grande spolvero di idee, ma per aggiungere subito dopo con il protagonismo invadente della sua affabulazione dialettica, che è però anche e soprattutto la sua vita che sta al centro di tutto questo, e che è poi proprio di quella che lui intende parlare, a suo modo e in assoluta libertà anche di rappresentazione, mostrandosi senza falsi pudori mentre mangia, o quando “cerca” la soddisfazione corporale del piacere carnale, raccontandosi nell’attesa di un impossibile “miracolo”, o esponendosi cinicamente mentre impreca o bestemmia, insegue qualcuno o un concetto astratto – persino un’illusione – o fugge correndo a perdifiato nella vana ricerca di qualcosa che non riesce a trovare o raggiungere.
E’ questo che Bene fa emergere dal suo film, perché in Nostra Signora dei Turchi succedono cose di ogni tipo (di tutti i colori, si potrebbe dire ancor meglio) ma con un movimento “artificioso” un po’ a spirale dentro un racconto a sussulti che non presenta molti nessi logici, simile quasi a un girare su se stessi che non riesce mai a trovare il modo per procedere oltre ed andare avanti. Infatti, la serie infinita degli accadimenti esposti nella pellicola, si esaurisce davvero (e non è in senso negativo che lo dico) in una sequenza progressiva di situazioni che non comporta necessariamente e in parallelo, anche l’obbligo di fornire le necessarie motivazioni in relazione a ciò che le ha determinate, perché le azioni – sembra voler sottolineare il regista -, se compiute e mostrate come spontanea conseguenza di una primaria necessità esistenziale ed inconscia, non hanno bisogno di spiegazioni (o forse non si spiegano affatto): ci sono, si compiono, tutto qui, ed è poi alla fine proprio questa l’istintuale ”casualità” che lega fra loro i fatti e gli eventi messi in scena. Nei sussulti barocchi di questa pellicola di Bene, è allora così che succede e si procede, e alla fine anche i fatti e gli accadimenti finiscono per far parte integrante di un décor che aiuta a “mettere in piazza” l’“esposizione” pubblica di un privato sofferto e in parte persino tragicomico (attraverso un impiego forsennato di immagini “dense”, corpose, scarnificate con il bisturi della cinepresa), che sopravanza ogni altro bisogno, diventa una “necessità” assolutamente prioritaria rispetto a tutte le altre cose che ci circondano, nel suo “spiattellare” in assoluta evidenza il profondo “sentire” delle cose del regista. Nemico, sfuggente, vessatorio, soffocante, distruttivo: così Carmelo Bene sembra che abbia percepito il mondo che lo circondava, una realtà così degradata e respingente che costringe chi non scende a patti – e lui è stato sempre uno di questi – a cercare invece il contatto, il confronto e la soluzione, senza però avere la certezza di trovarli, ma anche ad arrancare fra molte cadute e altrettante ricadute, proprio come accade nei sogni e nei deliri. Una visualizzazione “personale” e personalizzata dunque di una problematica intima e privata (fantasie, desideri, paure) nel tentativo di cercare una (im)possibile via d’uscita – o una scorciatoia – per trovare alla fine un appagamento e una compensazione (o anche- se vogliamo - una “guarigione”, perché quest’opera lascia intravedere un lavoro sotterraneo molto simile ad un percorso anche terapeutico di scandaglio interiore, una modalità un po’ catartica insomma che trasforma il tutto in qualcosa che si avvicina di molto a un rito esorcizzante).
Pellicola dunque più che semplicemente “sperimentale”, di assoluta e totale “avanguardia”, rivoluzionaria nelle risultanze pratiche (al di là persino dalle probabili intenzioni iniziali del regista) per le incidenze e i risultati che consegue nel depurare le cose dalle scorie sovrastrutturate delle convenzioni, e capace per questo di modificare il modo di fare, di pensare e di percepire la vita e il mondo, ma anche di cambiare quello di vedere il cinema, proprio perché suggerisce ed incita ad approcciarvisi senza troppe “griglie” costrittive, così da potersi abbandonare completamente alla profonda empatia delle emozioni.
Come ogni opera d’arte e di pensiero però, anche Nostra Signora dei Turchi propone differenti e contrapposte chiavi di lettura: se si sposta infatti l’asse della visione, il punto “focale” dello sguardo dall’egocentrismo totalizzante dell’autore-protagonista a tutto ciò che intorno lo circonda (il mondo reale della vita), constateremo allora che il film può assumere la forma – ed è tutt’altro che una contraddizione – di una satira feroce e una beffarda parodia, e diventare anche lo specchio crudele della sua epoca: quando è in atto una rivoluzione, è chiaro che l’artista non deve semplicemente illustrarla o fare il pubblicitario di questa, ma deve esprimersi nel modo più originale, più libero e trasfigurare quei contenuti, quel movimento in arte. In questo senso, Nostra Signora dei Turchi, del ’68 potrebbe essere il manifesto, ma di un sessantotto diverso dal sessantotto che in realtà è stato, pieno di contenuti, pieno di proclami, pieno anche di logiche per le quali gli artisti dovevano sostanzialmente essere dei propagandisti (Marco Bellocchio, Roma – ottobre 2005 – dichiarazione raccolta da Alessandro Riccini Ricci).
Per essere però anche un po’ filologici, è opportuno segnalare che il film “totalmente autonomo” nelle sue forme da tutto e tutti, grazie alla sua debordante esposizione visiva prettamente e totalmente “cinematografica”, è in effetti la trasposizione in immagini di un precedente lavoro teatrale dallo stesso titolo, a sua volta derivante da un “antiromanzo” di Bene - definizione dello stesso autore – pubblicato da Sugar nel 1966, se non ricordo male. Pellicola dunque riconducibile inequivocabilmente a un solo uomo in campo (Bene è soggettista, sceneggiatore, truccatore, regista, segretario di edizione, protagonista, comparsa, costumista, scenografo e persino primo macchinista), qualche apparentamento può semmai trovarlo in alcuni momenti e passaggi con la corrente surrealista, una modalità però fortemente mediata dalla descrittività analitica comunque sempre sopra le righe, che non viene mai abbandonata. Tecnicamente, è grande il merito attribuibile al regista per essersi saputo muovere, pur nella confusione programmatica dell’insieme, con elegante competenza e una straordinaria proprietà “istintuale” della messa in scena.
Di particolare rilevanza la composizione cromatica del colore, e soprattutto l’amalgama figurativo delle scene ispirato principalmente agli ex-voto popolari del meridione, ma che sembra avere qualche attinenza nelle forme anche con la pittoricità drammatica e un po’ brutale del Caravaggio e può ricordare (cito ancora la critica dell’epoca) con la sua particolare struttura formale che recupera l’uso di una tavolozza contrasta e violenta, di bagliori e di contrasti netti proprio negli squarci dei frequenti tagli di luce, la parte a colori de “La congiura dei Boiardi”, evocando e delineando atmosfere di impietosa e beffarda smitizzazione (Abati).
Il controcanto melodrammatico delle parole, costituisce invece l’elemento principale e permanente dell’ironia sottile con cui viene trattata la materia: il suono dilato, spesso deformato e amplificato, è usato con rara consapevolezza espressiva (da vero uomo di teatro insomma). Basta pensare, per essere più espliciti, agli effetti fra lo straniato e l’ilare che creano gli interventi vocali di Montanelli che rilascia dichiarazioni sul suo Generale della Rovere, o quelli di Arnoldo Foà che si cimenta nella lettura del Lamento per la morte di Ignazio di Lorca, o peggio ancora, del Ruggero Ruggeri che recita col birignao dell’epoca, i versi de Il trionfo di Bacco e Arianna.
Niente si salva dunque nel gioco al massacro composto da Bene, nemmeno lui stesso, visto che è quasi sempre il bersaglio diretto e “spudorato”di questo baraccone strabordante curioso e stimolante.
Per concludere in bellezza, si potrebbe allora semplicemente dire ed affermare, che mai nessun altro sperimentalista cinematografico è risultato alla fine più cosciente e implicitamente razionale di Bene (che più che un complimento, sarebbe una “consacrazione”), ma preferisco farlo invece ricorrendo ancora alle parole di Adriano Aprà, sicuramente più pertinenti ed appropriate delle mie: Il film sembra raccontare una storia di frustrazione e di morte: il protagonista si immola sull’altare della santa sfibrato dal proprio eccesso d’amore e dal proprio tradimento, dalle proprie contraddizioni di uomo umano, lacerato da illuminazioni e incubi; ma per lo spettatore il film continua a pulsare impresso nella memoria come un oggetto vivo.
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