Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
"Los olvidados" ("I figli della violenza", Palma d'oro a Cannes) è il terzo film messicano di Luis Bunuel, che attinge dagli archivi della polizia criminale per offrirci la verità di un paesaggio urbano di desolante miseria e indicibile crudeltà umana. Bunuel ci propone l'infanzia negata, quella che degenera facilmente in atti delinquenziali e lo fa precisando il suo intento sociale (parlò di "film di lotta sociale") con l'accuratezza analitica dello studioso e la geniale fantasiosità di un mistificatore nato delle realtà di fatto. Si seguono le sorti di Pedro (Alfonso Mejia) e della banda di teppisti suoi amici, capeggiati da Jaibo (Roberto Cobo), un fannullone propotente a cui Bunuel si diverte a mettere i panni dell'eroe di cartapesta in un mondo sopraffatto dal degrado, in un universo di derelitti confinato nei pensieri più reconditi degli apologeti della società del benessere. Un cieco (Miguel Inclan) mendicanti, paralitici, barboni che si contendono i rifiuti e "ragazzi affettuosi e male amati / assassini adolescenti assassinati (questi i versi che Jaques Prèvert dedicò al film) fanno il quadro di miseria che caratterizza i sobborghi di Città del Messico, una di quelle bidonville che si generano ai fianchi delle grandi metropoli senza che gli animi benpensanti ne vengano minimamente turbati, un mondo chiuso e impermeabile che si esaurisce tutto nel suo inevitabile corollario di miseria fisica e morale, una realtà insopportabilmente brutta, di quelle che non possono non far germogliare quella violenza veicolata dall'istintiva necessità di sopravvivere un altro giorno ancora. "Voglio diventare buono, ma non so come fare", dice il piccolo Pedro alla madre (Estela Inda), parole che segnano la scarsa possibilità data a questi ragazzi di deviare su sponde più quiete un destino che sembra essere stato scritto da chi si è totalmente dimenticato della loro esistenza, di evadere da un stato di cattività permanente che inevitabilmente permea l'esistenza di ognuno e in cui ognuno si sente naturalmente ingabbiato. Los olvidados, i dimenticati, sono tali perchè si riconoscono solo tra loro, sanno di essere sconosciuti fuori dal loro mondo, estranei per quel centro che ne ha funzionalmente decretato la nascita e ipocritamente sancito la degenerazione sociale. Si sopravvive al suo interno solo se si è solidali l'un l'altro, perpetuando in eterno un corporativismo alimentato dal cieco e inconsapevole istinto di sopravvivenza. Ogni barlume di luce che si insinua in esso, ogni accenno di umanità che contrasta con un destino segnato dalla violenza, si trasforma inevitabilmente in tragedia. Si colora di nero come l'animo di chi è nato sputando miseria.“I figli della violenza" ha certamente assonanze col movimento neorealista, ma l’autore spagnolo piega il tutto alle sue esigenze stilistiche, equilibrando con maestria il realismo dello sguardo e delle finalità sociali con la surreale fascinazione dei mezzi espressivi. Bunuel fissa l’assoluta mancanza di alternative legali per questi figli della violenza senza scadere nell’improduttiva commiserazione dell’emarginato sociale. Coglie la ferocia che anestetizza la ricerca d’amore senza essere moralista. E’ nel contingente ma si pone anche oltre di esso seguendo fedele il solco già tracciato dalla trama spiccatamente surrealista dei suoi lavori precedenti. L’uso della componente onirica (i sogni di Pedro e l’allucinata sequenza finale) e di quella mitica (la presenza emblematica del cieco, una sorta di mostro arcaico che catalizza verso di se le vicende di tutta la varia umanità che popola il film), unito alla ridondante rappresentazione della crudeltà umana, conducono il film oltre la pura descrittività della realtà fattuale per seguire lo shema tipicamente bunualiano di negare il reale nel momento stesso in cui ce lo sta mostrando, di cospargerlo di segni e simboli per orientarlo verso la surreale plausibilità della vita. Questo è il modo di fare cinema del maestro spagnolo ed è questo, probabilmente, l’elemento capace di sottrarlo da ogni vincolo spazio temporale. Per renderlo eternamente bello ed eternamente in lotta contro l'ordine costituito.
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