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I figli della violenza

Regia di Luis Buñuel vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su I figli della violenza

di laulilla
10 stelle

Palma d'oro per la migliore regia a Cannes nel 1951. Un capolavoro.

 

– Breve storia di un’opera scandalosa

Luis Buñuel aveva conosciuto negli anni lontani del suo soggiorno parigino Oscar Dancigers, il produttore di origine russa che, dopo il suo arrivo in Messico, gli aveva affidato la regia di due film: Gran Casino (1946) e El Gran Calavera (1949). Nel 1950, quando fu la volta di questo film, le difficoltà, che subito emersero, misero a dura prova l’amicizia antica fra i due.

All’origine dei dissapori, infatti, era la durezza del soggetto, poiché, quasi riprendendo lo stile documentaristico di Las Hurdes, Buñuel si proponeva di rappresentare la realtà della vita dei bambini nelle periferie povere di Città del Messico, ispirandosi, anche, in parte al neorealismo del cinema italiano, e in special modo a Sciuscià, che aveva visto e apprezzato.

Il grande regista, che pure aveva preparato il suo lavoro con estremo scrupolo, documentandosi direttamente, attraverso la frequentazione assidua, per sei mesi, dei luoghi raccontati, non aveva tenuto conto dell’orgoglioso nazionalismo dei messicani, persino di coloro che lavoravano al suo progetto, dalla parrucchiera che voleva andarsene sdegnata, non riconoscendosi nel personaggio materno del film, al tecnico che lo invitava a fare un vero film, che non rappresentasse “schifezze”, allo scrittore che lo aveva aiutato a inserire molte espressioni gergali tipiche di quegli ambienti degradati, ma che non volle essere accreditato col suo nome nei titoli di testa.

Ovvio, perciò, che il pubblico non apprezzasse la pellicola, la quale rimase nelle sale per soli quattro giorni. Le reazioni degli addetti ai lavori indussero Dancigers a controllare attentamente la spesa per il film, impedendo al regista di girare le scene surrealiste che aveva in mente.

Quando, nel 1996, gli organizzatori di una grande mostra su Buñuel andarono alla ricerca delle otto bobine originali del film, conservate alla cineteca universitaria di Città del Messico, si avvidero che una inaspettata nona bobina conteneva addirittura un finale alternativo e consolatorio, che per fortuna non venne mai utilizzato, ciò che lascia immaginare quale battaglia Buñuel avesse dovuto affrontare, per difendere il proprio diritto a esprimersi pienamente in questa sua opera e per resistere, imponendo il durissimo finale che conosciamo, alle pressioni del produttore in fase di montaggio. Dopo che, nel 1951, al festival di Cannes  per questo film Luis Buñuel fu premiato con la Palma della critica come miglior regista, le cose per lui cambiarono: finalmente quest'opera, ospitata in una prestigiosa sala della capitale messicana, ottenne il successo che meritava tanto che fu poi a lungo mantenuta in cartellone.

 

– Il film e i perché dello scandalo

Le ragioni di tanto scandalo vanno ricercate, innanzi tutto nel soggetto del film che è ben richiamato dal titolo originale Los olvidados: gli obliati, i cancellati, coloro di cui nessuno si ricorda. Tutte le traduzioni del titolo - compresa quella italiana - hanno cercato di esorcizzare la durezza evocata dal termine; la traduzione francese, poi, come affermò Buñuel nelle sue memorie, mantenendo il titolo originale, ma aggiungendovi un retorico “Pitié pour eux”, ha sfiorato il ridicolo.

Una voce fuori campo, all’inizio della proiezione, ci dice come nelle periferie di tutte le grandi metropoli si ammassi un numero impressionante di uomini, ignorati da tutti, che conducono una vita violenta e primordiale, ma il film si sofferma in particolare sulla situazione di Città del Messico, studiata a fondo dal regista.                                                                                                            

Emerge dalle immagini nettissime del racconto (la fotografia straordinaria, in un bianco e nero eccezionalmente espressivo, è del grandissimo Gabriel Figueroa) la spaventosa emarginazione degli adulti e soprattutto dei bambini, "scarti” della società, nati senza che nessuno li volesse e badasse a loro, cresciuti senza amore sulla strada, come animaletti o cani randagi, destinati a morire ancora giovani senza essere ricordati e pianti, finendo nelle discariche della spazzatura, come il piccolo Pedro, o nelle acque nere della città come Jaibo, il giovane delinquente, fuggito dal riformatorio, organizzatore di atti criminosi, che si credeva invincibile.


I ragazzi, intorno ai quali si costruisce il film, alternano alle rapine violente, forme di lavoro inumano e faticoso: i loro deboli muscoli vengono utilizzati per far girare le giostre, per la gioia dei bambini più ricchi, oppure per lavorare il ferro rovente, ma possono anche diventare l’ambita preda di ricchi pedofili che cercano di adescarli offrendo loro un po’ di denaro.
Tutti si sono arrabattati per sopravvivere e infine hanno dovuto arrendersi alle spietate leggi della lotta per l’esistenza in cui prevale il più forte. Come dirà il vecchio cieco, commentando la morte di Jaibo, se non fossero mai nati, sarebbe stato meglio.
Questa cupa rappresentazione della sorte dei giovani – condannati fin dalla nascita alla sconfitta e al dolore - è stata probabilmente la ragione dello scandalo del film, insopportabile per il pubblico della media e piccola borghesia che chiedeva al cinema evasione e buoni sentimenti e che rifiutava di confrontarsi sia con la durezza della realtà sociale che non voleva vedere, sia con la filosofia del regista che gli faceva orrore.

 

– Surrealismo, neorealismo e realismo:

Qualcuno ha parlato delle possibili suggestioni neorealiste che avrebbero ispirato parti del film, quasi autorizzato dalle parole del regista, che espresse apprezzamento e ammirazione per Sciuscià di Vittorio de Sica. Si stenta, tuttavia, a ritrovare in questo lavoro, che pure ha la forza di una implacabile denuncia dell’inerzia dei governi, incapaci di interventi efficaci a contenere il degrado attorno alle metropoli, lo spirito “progressista” che animava le belle pellicole di casa nostra.
Questo film, come gli altri di Buñuel, scaturisce da una visione cupamente pessimistica: nessun uomo è innocente, neppure i bambini, poiché il desiderio d’amore, comune nei più piccoli, nasce dal bisogno di sopravvivere che è l’istinto fondamentale di ogni essere vivente, quello che ci accomuna agli altri animali e che, attraverso il condizionamento delle società organizzate, abbiamo abbandonato, almeno nella sua forma più feroce, pagandone il prezzo: il disagio della civiltà.

Las Hurdesprecede questo film che, in forma diversa ci parla della ferinità dei giovani protagonisti che segna irreversibilmente la loro vita disgraziata, condannandoli a morire in modo atroce, mentre “non avrebbero mai dovuto nascere“.                                     

Viene alla mente il realismo dei racconti di Galdos, dei Borrachos di Velazquez, dei personaggi popolari e oscuri di Ribera e di Goya, assai più che il neorealismo di De Sica, così intriso di quella fiducia nel progresso, che è del tutto estranea al pensiero di Buñuel. 

Presente, invece, in misura limitata (più per gli interventi censori di Dancigers che per la volontà del regista), la cultura surrealista, che si esprime sia nella presenza simbolica degli animali buñueliani, sia nella rappresentazione del mondo onirico di Pedro, e, in seguito, di Jaibo morente. Pedro sogna che la madre, che lo odia, essendo il ricordo vivente di uno stupro subito da giovanissima, gli dia da mangiare un pezzo di animale appena squartato, di cui immediatamente si impadronisce Jaibo, che, nascosto, aveva visto la scena. Jaibo viene oscuramente percepito da Pedro come il rivale che gli contende l’affetto materno, perciò nel sogno cibo e amore materno (con tutti significati edipici correlati) si sovrappongono confondendosi dolorosamente.

Jaibo morente, invece, vede nel delirio dell’agonia avvicinarsi un cane famelico che dovrebbe avere la meglio su di lui, pronto a soccombere, ormai privo del potere criminale che lo rendeva forte e temuto: incubo terribile, “memento” dell’ ineludibile destino di tutti.

Ricordo che Jacques Prévert, il grande poeta del ‘900, amico di Buñuel, dai tempi della comune militanza surrealista, a Parigi, scrisse, due giorni dopo la proiezione di questo film a Cannes, una lirica che mi sembra aver colto, attraverso alcune rapide intuizioni, di quelle che appartengono ai veri poeti, il senso del film:

 

L’ultima volta che vidi Luis Buñuel
fu a New York nel 1938 e nell’America del Nord
L’ho rivisto l’altro ieri sera a Cannes
molto da lontano e molto da vicino
Non è cambiato

Luis Buñuel non è un presentatore di ombre
di ombre avvolte in abiti talari
di ombre consolanti consolate
e comodamente martirizzate
E come anni fa
la strage degli innocenti lo ferisce e lo nausea
lucidamente
generosamente
senza che egli provi neppure lontanamente la salutare necessità di un capro espiatorio piantato sulla croce per legittimarla
questa strage.
Luis Buñuel non è un presentatore di ombre…

 

 

 

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