Regia di Alain Resnais vedi scheda film
Diego (una delle più belle figure maschili della filmografia di Resnais)è un militante in crisi che riflette sulla sua figura di rivoluzionario. Il film, un sentito omaggio all'uomo e alla sua integrità morale.
E’ il 1966 l’anno in cui Resnais, utilizzando una bellissima, profonda, importante, problematicamente coinvolgente sceneggiatura di Jorge Semprun, realizza La guerre est finie: Franco era ancora saldamente in sella sulla groppa di una Spagna devastata dalla sua luttuosa dittatura e non accennava minimamente a “mollare la stretta” e lo scrittore, dal suo esilio forzato, avvertiva impellente la necessità di ritornare su un argomento così scottante e per molti versi “dimenticato”, così da consegnarci la traccia di una storia emblematica che era forse anche “esperienza personale” che troverà nel regista il giusto mediatore per trasferirla in immagini cinematografiche di forte impatto e immediata presa.
La guerra, quella civile che aveva acceso la speranza di un mondo anelante libertà e giustizia sociale, era finita davvero da troppo tempo (sarà il protagonista ad ammetterlo con scoraggiata disillusione), lasciando il paese in mano a un potere feroce, fascista, intollerante. La Spagna era schiacciata, stroncata (e lo rimarrà fino alla morte di Franco) sotto il peso dell’oppressione, della tortura, della privazione di ogni diritto e del giustizialismo terribile della garrota utilizzata nelle esecuzioni sommarie finalizzate a decimare l’opposizione cosciente che non intendeva demordere né arretrare, spesso lontana dal suolo natio, a riorganizzarsi al di là del confine, in terra di Francia, senza troppe illusioni, ma con la forza rabbiosa di chi “sa” che deve continuare a lottare, anche a costo della vita perché tutto davvero non sia perduto e per sempre.
Il cinema in quegli anni era “barricadero”: non arretrava davanti ai temi importanti dell’attualità, non aveva paura di “sporcarsi le mani” raccontando la storia. Anche Resnais lo aveva già fatto più volte, proprio utilizzando la mediazione della forza poetica della sua arte, “narrando” il nazismo della Germania dei campi di concentramento e mostrando fra i primi le terribili testimonianze visive delle vittime dell’olocausto che sono più eloquenti di ogni parola (Nuit et brouillard) chiamando in causa non solo gli autori materiali dello sterminio, ma la responsabilità dell’intera Nazione, o ancor meglio, con il suo primo film di “finzione”, facendo diventare esperienza comune e universale la tragedia di Hiroshima, rendendola così, più che “condivisibile”, assolutamente riconoscibile (Ci siamo detti che potevamo tentare un’esperienza con un film in cui i personaggi non partecipassero direttamente all’azione tragica, ma se ne ricordassero, o la provassero praticamente. Noi volevamo creare in qualche modo degli anti-eroi: la parola non è del tutto esatta, ma esprime bene quello che pensavamo. Così il giapponese non ha vissuto la catastrofe di Hiroshima, ma ne ha una conoscenza intellettuale, ne ha coscienza, proprio, come tutti gli spettatori del film – noi stessi – possono, dall’interno, sentire questo dramma, provarlo collettivamente, senza aver mai messo piede a Hiroshima, riviverlo anche attraverso la minuscola storia di Nevers che diventa allora quasi la fioca luce di una candela, capace con la sua forza drammatica, di rinviare ingrandita e rovesciata da una lente, l’immane sciagura che l’uomo ha voluto riservare a una città, a un popolo, a una nazione, a una generazione, facendola diventare terrificante minaccia per il mondo intero, - e sono dichiarazioni del regista stresso rilasciate in un’intervista all’indomani della presentazione a Cannes dell’opera). Lo farà ancora in seguito e in maniera più esplicita, “per denunciare” l’aggressione americana al popolo vietnamita, con l’opera collettiva (oltre a Resnais, Klein, Marker, Ivens, Godard, Lelouch e Varda) Lontano dal Vietnam, che è a tutti gli effetti un cinema militante, e a suo modo una sorta di anticipazione (quasi una prova generale) che è alle origini, e sfocerà poi, nell’ esperienza politica degli Etats Généraux du Cínema costituiti durante il maggio francese.
Ogni volta una “forma” diversa, però, quasi spiazzante, per introdurre tematiche forti e far meditare, in apparente sordina, su immani tragedie rielaborative come quelle del senso di colpa, (lo ha fatto con Muriel, pellicola con la quale ha inteso raccontare il crimine, la violenza, dell’esperienza colonialista in Algeria, confrontandosi però indirettamente con la capacità umana di frequentare con indifferenza persino l’orrore della tortura e di negarne le responsabilità come se fossero ineluttabili conseguenze dissociative di uno status).
Non poteva dunque sottrarsi al doveroso richiamo della Spagna ferita, un tema per altro in qualche nodo già sfiorato – o meglio traslato - con il suo documentario su Guernica, ardita esperienza visiva capace di creare nello spettatore una violenta tensione emotiva (uno choc quasi sensoriale, amplificato dalle straordinarie parole della lirica omonima di Éluard che fanno lungamente da tappeto sonoro alle azioni mostrate: “Beau monde de masures / De la mine et des champs / Visages bons au feu visages bons au froid / Aux refus à la nuit aux injures aux coups / Visages bons a tout / Voici le vide qui vous fixe / Votre mort va servir d’exemple / La mort cœur renversé / Ils vous on fait payer le pain / Le ciel la terre l’eau le sommeil /Et la misère / De votre vie… etc: etc.) così vigorosa, da riuscire a far percepire mediante l’utilizzo di materiali disomogenei come le immagini pittoriche di molte tele, sculture e composizioni di Picasso (Guernica compresa) alternate ad appropriati titoli di giornali e a panoramiche sulle rovine fumanti dei bombardamenti e di un muro a sua volta coperto da graffiti che non possono nascondere né minimizzare i vistosi segni della distruzione, tutta la terribile barbarie del fascismo, anche “ideologico”, delle guerre e di ogni dittatura, che è poi quello della sofferenza inutile e della privazione imposta agli uomini da un altro uomo, che si può sintetizzare semplicizzando, con la parola “oppressione” .
Le vicende umane e politiche immaginate da Semprun, ne sono state dunque il viatico eccellente, che come sempre Resnais ha saputo valorizzare al meglio adeguando il suo stile alla forza della parola.
Parlando del film e di Diego, il suo protagonista, regista e sceneggiatore hanno riassunto così il soggetto e la storia:
Tre giorni della vita di un uomo.
Tre giorni datati con estrema precisione: siamo nel 1965, durante le feste di Pasqua. Cinque anni prima, l’anno scorso, tra sei mesi, quest’uomo non era, non sarà lo stesso.
Il tempo conta nella vita di un uomo di quarant’anni: l’usura si sente, le opzioni diventano più urgenti, o più irreali.
Tre giorni nella vita di uno spagnolo.
Anche questo conta, la realtà della Spagna. E’ storia: una guerra che è finita, ma che pesa ancora sui destini individuali. E’ un paese che muore, sotto gli orpelli tradizionali – e drammatici, tutti ne convengono – della corsa dei tori e delle processioni della settimana santa (vedi al riguardo anche il contributo offerto da Francesco Rosi con il suo Il momento della verità).
Un vecchio paese molto giovane. E’ anche il paradiso delle vacanze: 14 milioni di turisti, i piedi nell’acqua, nel baccano dei transistor.
Trent’anni fa scoppiava la guerra civile. Dopo trent’anni, degli uomini cercano di modificare, attraverso la loro azione tenace e sconosciuta, il destino che una vittoria militare ha imposto al loro paese.
Il destino di Diego, questo spagnolo di quarant’anni, è la rivoluzione: è così che le cose si sono stabilite, per una serie di meccanismi del caso e delle scelte. Una rivoluzione che prende spesso la visione del sogno o del dolore. Tre giorni della vita di Diego Mora a Parigi. La Spagna con il peso di tutta la sua presenza, assente e lontana. Tre giorni alla ricerca di Juan – suo simile, suo fratello – che il pericolo minaccia e che forse sarà impossibile salvare.
Tutto qui. La storia di un uomo, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti interiori, delle speranze tradite, della disillusione e della necessità di restare coerenti con i propri ideali “ad ogni costo”: si è “militanti” ed attivi anche se la storia non è dalla nostra parte, né ci si può tirare indietro se si è chiamati all’azione, anche quando forse è più forte l’ipotesi della sconfitta perché i tempi non sono maturi e la sorte ci è avversa.
La più lucida intuizione di Semprun e di Resnais, è proprio quella che riguarda, analizza e mette perfettamente a fuoco, la condizione del militante politico degli anni sessanta, che Paolo Bertetto nel suo saggio sul regista pubblicato nella collana “Il Castoro”, definisce permanente e innaturale, incapace cioè di stabilire un rapporto immediato con la realtà per incidere davvero sul fronte socio-politico, non avendone né gli strumenti, né la forza, e che ne determina di conseguenza – proprio per quell’agire più mediato e straniante e senza “certezze”, la possibile, quasi inevitabile, crisi esistenziale, che non prescinde però dalla completa adesione ideologica e psicologica al progetto e alla lotta che rimane immutata e immarcescibile.
Diego è dunque un antieroe (o meglio l’antieroe per eccellenza), un repubblicano rifugiato a Parigi, stanco di attraversare clandestino i Pirenei in attesa di una rinascita, di un “risveglio”, di una rivolta, di una “rivalsa” troppo lenta ad arrivare che non si intravede nemmeno “possibile” dietro l’orizzonte offuscato della quotidianità. E Diego - il suo nome - è uno dei tanti dietro il quale è costretto a camuffarsi per nascondersi alle ricerche della polizia sulle sue tracce, una poliedrica multiformità in movimento, che a volte gli fa persino rasentare lo smarrimento di chi non ha – o meglio non può più rivendicare - una vera ed unica identità “certa”.
La nausea di Diego dunque, il suo scoraggiamento, sono elementi importanti che riflettono e rimandano la crisi più generale delle ideologie, che è poi la coscienza dell’inadeguatezza di ogni schema predefinito che non riesce più a valutare e giudicare una realtà in evoluzione costante che diventa per questo lontana e inafferrabile.
E tutto il film è costruito intorno alla dialettica individuo-storia, si estrinseca nel dissidio interiore (che non è solo individuale) di una vita vissuta fra la normalità dei rapporti consueti, che sono poi quelli della vita di ogni giorno, “falsati” dalle apparenze normalizzate di essere un uomo “qualunque”, e l’anormalità della lotta dell’organizzazione che è invece comunque azione e movimento, necessità di mettersi in gioco, di “fare”, di interagire con e per la Storia. E’ qui che sta davvero il nocciolo del problema: non si tratta soltanto di una frattura ideologica (Diego, che non si sottrae al suo “dovere” e alla sua sorte, è spesso in polemica con i vecchi compagni rimasti ancorati al mito della rivoluzione inevitabile e “ad ogni costo”, né si riconosce nelle correnti di ispirazione cinese delle nuove leve, poiché le avverte come retorici simulacri di qualcosa che non è più veramente “attuabile” né percorribile) ma del disagio esistenziale di una coscienza, quella appunto del “rivoluzionario permanente”, e l’autenticità della rappresentazione che ce ne viene offerta è data proprio dal fatto che ci viene descritto e raccontato esattamente per quello che è l’individuo e il suo percorso interiore che è poi quello di un rivoluzionario che vive in una situazione non più rivoluzionaria, per il suo stare nel mondo che lo circonda, ormai del tutto estraneo alla sua stessa ansia rivoluzionaria (Goffredo Fofi).
Diego non prospetta soluzioni, non è questa la sua funzione né il suo obiettivo. Si scopre semmai con rabbia ma senza rassegnazione rinunciataria, come il paladino di una causa persa, un uomo che continua a combattere la sua guerra (in)finita, seguendo con inesorabilità cosciente, l’ineluttabilità del suo destino, anche se i suoi compagni di sempre lo accusano di scetticismo (ma la pazienza e l’ironia, il vedere le cose per come sono davvero, rappresentano “virtù” non certo défaillances) e questo definisce una insolita lucidità critica anche di pensiero tutt’altro che acquiescente .
La guerra è finita può essere proprio per questo, e a pieno diritto, considerato il film più politico di Resnais, un labirintico movimento dei flussi della coscienza (questa volta però concentrati verso ciò che avverrà dopo, anziché sulla ricostruzione del passato, anche se l’oggetto delle anticipazioni mentali è a volte banale, come a testimoniare l’atteggiamento esistenziale del protagonista, il suo essere proiettato in una coerente operatività volta alla trasformazione progressiva del reale che non ha forse possibilità di incidere davvero sugli avvenimenti).
Il regista non rinuncia dunque agli intrecci temporali e a quelli fra realtà ed immaginazione che rappresentavano proprio la cifra stilistica del suo cinema così importante e innovativo in quegli anni, ma dal punto di vista strettamente formale, questa non si può certo definire un’opera di ricerca. Tratteggia semmai l’organizzazione e l’assestamento dei modi e delle forme già in precedenza sperimentate, anche se in ogni caso (pur intelligentemente piegato alle esigenze politiche di uno script narrativo che trova la sua forza principale proprio nella parola, e utilizza con efficacia la voce fuori campo che nell’edizione originale è significativamente quella di Semprun, a conferma della corrispondenza totale delle tematiche con il posizionamento mentale dell’autore letterario della storia) Resnais continua ugualmente a portare avanti con estrema lucidità ed efficacia, il suo lavoro sull’immaginario. L’immagine cinematografica che produce, si contrappone infatti dialetticamente alle parole come in Hiroshima, per riflettere e rimandare il punto di vista soggettivo del protagonista, integrando però, come già accennato, la percezione dell’oggettività assoluta con le rappressentazioni intuitive – o propositive che dir si voglia - della coscienza e del desiderio (vedi le sequenze in cui si prospetta una “possibilità” di azione differenziata, come la corsa di Diego verso il treno di Perpignano) o di uno sviluppo ipoteticamente realistico di ciò che potrebbe essere accaduto davvero (le immagini dell’amico catturato dalla polizia franchista).
Come ha dichiarato lo stesso Resnais, nel film la cinepresa si identifica con Diego, ne diventa spesso il suo sguardo: la camera lo segue e adotta costantemente il suo punto di vista, tranne un’inquadratura in cui Diego dorme e Marianne si avvicina al letto. La voce narrante spesso poeticamente espressa, diventa invece il necessario elemento “straniante” : tenevo molto a questo narratore dentro il film perché era anche un modo per dire che “siamo al cinema”, che vi presentiamo elementi reali, ma non tentiamo di farvi credere che si tratti di qualcos’altro di diverso dall’essere “cinema” (Resnais).
I tre giorni di Diego, fra un attraversamento e un ritorno di qua e di là dalla frontiera (nel mezzo ci sono gli incontri e le “donne”, oltre che due straordinarie scene d’amore caste e pure per come sono strutturate e realizzate, più concentrate sui dettagli delle nudità e sulle tenerezze degli approcci e degli sfioramenti, che sull’inutile voyeurismo dei particolari anatomici, che furono però ugualmente pesantemente sforbiciate – come era ampiamente prevedibile visti i tempi e la tematica scomoda della storia - dalla miopia programmaticamente clericale a difesa di un ipotetico “pudore” che non veniva minimamente intaccato, della nostra censura reazionaria e servile) sono raccontati con rispettosa attenzione, osservando sempre e comunque l’uomo nella sua interezza, e non soltanto il politico e l’amante. Lo stile, come abbiamo visto, questa volta tende invece a nascondersi e lo fa con lo stesso vigore con il quale nelle opere precedenti era stato esibito con spudorata sfrontatezza, reso necessario e prioritario, per cedere invece una volta tanto e giustamente il posto preponderante del “primo piano” dell’attenzione, alla ricchezza molteplice dei significati esplicitati dal racconto.
Ineccepibili gli attori (fra tutti e soprattutto, Montand, la Thulin, la Bujold e un Piccoli un po’ defilato nel ruolo dell’ispettore), che oltre ad essere bravi ed appropriati, hanno anche la faccia giusta per ciò che devono rappresentare. Ottima la fotografia e funzionalmente efficace la colonna musicale.
Concludo con queste importanti annotazioni sempre di Bertetto, che rendono esplicito e meglio definito il senso e l’importanza dell’opera anche in relazione al percorso del suo autore : In fondo Resnais è sempre stato il regista dell’assenza, della svalutazione della realtà normale in favore di altro: era il regista dell’assenza in Hiroshima, quando svalutava il vissuto presente in nome della rilevanza esistenziale della memoria, di certe realtà sedimentate, che assumono una funzione determinante nel destino personale; lo era in Marienbad nella delegazione all’anno precedente del criterio del giudizio e del senso degli avvenimenti al presente, e nello spostamento nel futuro dell’unico mondo possibile per i protagonisti; lo era in Muriel nella ricerca di un passato più dinamico ed autentico sul piano esistenziale e nella contemporanea emergenza del vuoto del presente come radicalità della mancanza, che non riesce a colmare. Lo è persino questa volta: anche in “La guerra è finita” infatti, il vero mondo, l’esistenza autentica, è altrove, è nella lotta politica in Spagna, oltre il confine e i personaggi.
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