Regia di Michael Radford, Massimo Troisi vedi scheda film
Uno spettatore, se non serio almeno corretto, dovrebbe evidenziare di questo film i molti difetti. Tratto dal libro “Il postino di Neruda”, ne sconvolge le caratteristiche principali (l’età del protagonista, l’ambientazione, l’epoca), ma alla fine la sceneggiatura (realizzata, tra gli altri, da Furio Scarpelli) è il “male minore”. Il problema sta nell’approssimazione con la quale viene trattata la realtà storica (il conflitto tra comunisti e democristiani in primis), ma anche nelle banalità infilate per rendere poetica la poesia (troppe parole rendono banale la poesia, lo dice pure il Poeta al postino). Poesia intesa in senso lato, sia nella più facile celebrazione di Pablo Neruda che nell’atmosfera della pellicola. Certo, certo. È un film pieno di difetti. Ma io non sono uno spettatore corretto: io sono uno spettatore sensibile. E, sinceramente, non si può parlare (anche non bene) de “Il postino” a prescindere della storia umana che attraversa l’opera. Mi riferisco ovviamente a quel monumento all’arte che era Massimo Troisi, alla sua ultima, sofferta, emaciata, tenera, commovente partecipazione in un film. Troisi è stato il vero motore dell’operazione, fece in modo che i diritti fossero comprati dalla sua casa di produzione, si è ricostruito il personaggio del protagonista su misura, ha scelto il regista (lo scozzese Michael Radford, suo amico di vecchia data con cui avrebbe dovuto girare “Another time, another place”). Quando si dice che un attore dà l’anima la mente dovrebbe tornare a questa interpretazione. Per un tragico scherzo del solito destino, Massimo morì dodici ore dopo la fine delle riprese, quasi solo dopo aver assolto ad un compito che doveva prima a se stesso e poi agli altri. Il film non è un capolavoro, è piaciuto molto agli americani che l’hanno candidato a cinque premi Oscar (abbastanza generosamente), consegnando solo quello alla dolce musica di Luis Bacalov. Però il film è suo, è di Troisi, e non a caso le scene più toccanti sono quelle che hanno lui come padrone. Su tutte il flashback della manifestazione comunista, con l’alternanza passato-presente che vede un Neruda (un buon Philippe Noiret di solido mestiere) sconvolto nel suo silenzio. Il film è di Troisi, a lui è dedicato, lui “è” il film. E quindi non riesco ad essere obiettivo, io come altri. È pieno di imperfezioni e inadeguatezze, ma Massimo adombra tutto. E rende quest’opera – che altrimenti sarebbe stata una media produzione – un lucido e tormentato, eppure luminosissimo, testamento d’artista.
Dolci ed avvolgenti musiche di Luis Bacalov, premiate con l'Oscar.
Voto: 7.
Ha poco da fare, in verità, più che altro una presenza decorativa ed oleografica.
Recita il suo Neruda (disegnato non proprio egregiamente dagli sceneggiatori, bisogna dirlo...) con equilibrio e solido mestiere. Molto bravo.
Questa interpretazione è un saggio di arte recitativa: la sua ultima, sofferta, emaciata, tenera, commovente partecipazione. E' stato il vero motore dell’operazione. Quando si dice che un attore dà l’anima la mente dovrebbe tornare a questa interpretazione. Per un tragico scherzo del solito destino, morì dodici ore dopo la fine delle riprese, quasi solo dopo aver assolto ad un compito che doveva prima a se stesso e poi agli altri. Fu candidato agli Oscar come miglior attore. Insomma, lui E' il film, offusca le molte imperfezioni e vive la storia nella sua totalità. Indimenticabile.
Un tributo alla caparbietà e alla volontà di realizzare un'opera alla quale teneva moltissimo. Chissà quanto avrà influito nella direzione, ma l'importante è l'omaggio.
Non dà molte emozioni, a parte nel finale con l'alternanza passato-presente. Si rendeva conto che bastava lasciare la scena a Troisi e il film andava via, così, senza tante spiegazioni.
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