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Un cuore in inverno

Regia di Claude Sautet vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un cuore in inverno

di Theophilus
10 stelle

UN COEUR EN HIVER

 

 

“… Per me il cinema è …musica” (Claude Sautet è …la vita – François Truffaut); “…la musica è sogno…” – dice Stéphane, il protagonista maschile di Un coeur en hiver , secondo film della trilogia finale del rimpianto regista francese scomparso da pochi mesi (il primo ed il terzo essendo rispettivamente Quelques jours avec moi e Nelly et M. Arnaud). Da queste due frasi è fin troppo facile ricavare deduttivamente la conclusione che per Sautet il cinema era sogno e questa affermazione è ulteriormente suffragata da un’altra asserzione del regista – riportata, come la precedente, sul catalogo di France Cinéma 2000 – “ Le cose non accadono mai come si crede: è l’argomento di tutti i miei film”.

Un coeur en hiver - commosso omaggio che  France Cinéma, giunto quest’anno alla quindicesima edizione e svoltosi dal 2 all’8 novembre, come sempre, a Firenze, ha voluto tributare al cineasta francese - è una storia d’amore o, se si preferisce, pleonasticamente, di un mancato amore, fatta di sguardi, musica e silenzi.

La magia dell’impossibilità, l’inaccessibilità come costruzione e dimensione estetica, l’indefettibilità del sogno di un amore non vissuto sembrano essere gli assunti del film per il quale Sautet potrebbe essersi ricordato della filosofia di Kierkegaard , secondo la quale l’uomo è principio spirituale logico, che non si fonde col principio erotico immediato di cui è portatrice la donna. Il sogno è tanto più vivo, appassionante, plastico, indistruttibile, quanto meno il dato concreto che lo ha generato e lo alimenta si realizza.

Il liutaio Stéphane, socio di Maxime, fa una scommessa con se stesso giocando a fare innamorare di sé (pur non amandola) la donna di quest’ultimo, la violinista Camille Kessler: tutto quello che ne consegue non viene giudicato dal regista, tutto viene lasciato in un’aura di ambiguità e lo spettatore è chiamato ad immedesimarsi col protagonista, a porsi in sua vece i suoi quesiti. Il film scorre enigmatico, carico di sospensione, misterioso, quasi metafisico. La musica lo attraversa in modo ambivalente: in Stéphane ha la sua preparazione, la sua premonizione, il sogno di una perfezione a cui egli tende con la calma silenziosa con cui costruisce e mette a punto i violini; in Camille ha la sua attuazione focosa, drastica, perturbatrice. Stéphane (uno straordinario Daniel Auteil) sa di scherzare col fuoco mettendo a repentaglio il suo sogno con la preparazione meticolosa e puntigliosa del violino di Camille. La sua è una provocazione, una sfida, ma anche un imperativo categorico che il suo amore per la musica gl’impone; lui è più perfetto del musicista che suonerà sullo strumento che egli ha preparato: il sogno supera la realtà.

Ma quando troverà in Camille un’eccellente violinista, in grado di tenergli testa o, per lo meno, essere sua pari, con l’interpretazione musicale, ecco che il mito si attua, il sogno si fa realtà e Stéphane, non riuscendo ad accettarlo, respinge Camille. Avrebbe un’ultima possibilità di preservare la dimensione onirica quando la donna – forse sulle ali della passione in lei suscitata dalla presunta dedizione del liutaio – comincia ad interpretare un po’ troppo rapidamente la sonata per violino e pianoforte di Ravel: lui glielo fa notare (non può fare diversamente), lei ne conviene ed esegue il brano in maniera esemplare: tutto così si compie, tutto è cioè finito; Stéphane ha bisogno di ricominciare da capo, di ripercorrere il viaggio ancora alla ricerca della perfezione, attraverso altre strade.

Egli è comunque sempre in sospeso, sa di giocarsi la sua chimera con Camille e ne ha paura: quando ascolta  le sue prove non rimane fino alla fine perché, probabilmente, teme la delusione della compiutezza, ma anche perché gioca con lei al gatto e al topo; sosta ad ascoltarla nell’atrio dello studio dove si compie l’avvenimento, in una sorta di delirio tutto interiore, così come Kierkegaard restava ad ascoltare il Don Giovanni di Mozart nel vestibolo del teatro.  Come una falena è attratta dal fuoco da cui verrà arsa, così Stéphane è consapevole che con Camille brucerà la sua illusione: deve, anche se non vuole. Tutto rimane dentro di lui, però: solo i suoi occhi rivelano quel crudele gioco al massacro, quel freddo rovello estetico. Camille lo scambia per un amore vero, per  passione, mentre Stéphane sta come divorando collo sguardo i gesti che lei imprime sul violino e si nutre dei suoni sublimi che esso produce. A quel punto lei non riuscirà più a credere alle sue proteste di non riuscire ad avere accesso ai sentimenti e noi non sappiamo se prestare fede a queste sue affermazioni, pronunciate quando ormai è costretto a giocare sulla difensiva da Camille che è persuasa di stare corrispondendo al suo amore: ma l’amore non è per lui che un gioco solipsistico, una scommessa di cui non sa prevedere le conseguenze. Stéphane avrebbe forse bisogno di non cogliere nel segno, almeno non così rapidamente: potrebbe innamorarsi veramente se Camille non abboccasse troppo presto all’amo della cerebrale costruzione estetica innalzata da lui, se partecipasse al gioco; al contrario lei si slancia col suo fuoco alla ricerca della risoluzione della tensione amorosa e ne esce umiliata, dolorosamente sconfitta.

C’è chi ha visto nell’episodio della morte che Stéphane dà a Louis, il maestro di violino, un segno di redenzione, un riscatto, un aprirsi all’amicizia. Anche questo accadimento rimane, a nostro avviso, in un’aura di ambiguità ed è possibile interpretarlo in modi diversi. Tutto si svolge con estrema semplicità di mezzi, in completo silenzio, rapidamente anche se in maniera tranquilla, non concitata. E’ un altro dramma che si dipana con pudore e potrebbe essere un’ulteriore dimostrazione che Stéphane compie meccanicamente i gesti della sua vita, che egli ha bisogno di  mettere fine al senso di sospensione e prostrazione che quella situazione gli crea, più di quanto non voglia porre termine alle sofferenze di Louis che, muto, gl’implora il suo intervento. Quando Camille gli dirà di sapere che lui voleva bene a quella persona, Stéphane le risponde di aver creduto a lungo che Louis fosse l’unica persona che egli avesse mai amato: dunque ha ora capito di amare almeno un altro essere umano (e chi, se non Camille?), oppure si è reso conto di essersi sbagliato del tutto e di non avere mai amato nemmeno lui?

A giochi fatti, Stéphane va nell’appartamento di Camille e le dà atto di avere colto nel segno quando ha affermato che una parte di lui non vive. “Mi sono dato delle proroghe” – afferma ancora Stéphane, che, rendendosi conto che l’esistenza non si realizza mai secondo le proprie aspettative o aspirazioni, ha procrastinato le decisioni della vita, fermo in un immobilismo raggelante, ma che lo rassicura. Questo suo pessimismo cosmico è messo a dura prova, è sfidato in modo irreparabile dall’incontro con Camille: una donna bellissima (a cui dà il volto la splendida Emmanuelle Béart), un’artista, passionale ed intelligente, con la quale il binomio amore/musica si salda. Ogni aspettativa deve potersi realizzare, tutto sembra poter reggere all’impatto della sfida al sogno; ma Stéphane non osa fare quel passo:  la paura della delusione e della sconfitta prevalgono in lui.

 “L’eccesso di spirito critico” nei propri confronti, che gli ha impedito di proseguire gli studi violinistici è sintomo di quel perfezionismo con cui deve fare i conti anche l’amore.

Mentre scorrono i titoli di coda, vengono diffuse le note malinconiche, miste di amarezza e fredda disillusione, del trio di Ravel, un dramma pacato, interiore, che si spegne a poco a poco, senza sussulti. La passione di Camille si è arresa, trasfigurata in mesta rassegnazione; il suo sguardo, fatto di rimpianto, s’incrocia con quello di Stéphane perso più nel vuoto che nei suoi occhi. Finalmente sembrano essere accomunati da un sentimento: il cordoglio per ciò che, incomprensibilmente, non è stato.

Michel Boujut, biografo di Claude Sautet, nelle brevi parole di presentazione che hanno preceduto la proiezione fiorentina, ha sottolineato come la figura del regista si possa sempre rinvenire in uno o più personaggi dei suoi film che, pertanto, devono ritenersi, alla lettera, autobiografici. Parimenti, Daniel Auteil è così ‘presente’ in Un coeur en hiver,da dare l’impressione di interpretare se stesso.

 

Theophilus

12 novembre 2000.

 

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