Regia di Goffredo Alessandrini vedi scheda film
Film del 1939 con evidente impostazione propagandistica, volto cioè a giustificare e a celebrare la recente conquista italiana dell’Etiopia e la nascita dell’Impero, e al tempo stesso a presentare agli italiani usi e costumi dei popoli conquistati. Per raggiungere questo obiettivo la sceneggiatura adotta una prospettiva storica, scegliendo di incentrare la narrazione sulla figura del missionario francescano Guglielmo Massaia, amico personale e consigliere di re Menelik II, attivo in Etiopia nel periodo 1868-79 con la fondazione di importanti missioni, tra cui quella di Finfinni, nucleo originario di Addis-Abeba. Vediamo raccontate in chiave agiografica le imprese caritatevoli del frate (chiamato familiarmente dagli indigeni Abuna Messias) e le oscure mene dell’onnipresente e intrigante clero copto, suo unico autentico nemico, per eliminarlo o almeno cacciarlo dal paese. Ne emerge il ritratto, vivido ma tendenzioso, di un’Etiopia barbarica, sprofondata nella sua medievale superstizione religiosa, perennemente squassata da guerre tribali, insomma del tutto incapace di autogovernarsi autonomamente e urgentemente bisognosa dell’avvento della superiore civiltà italica. Oggi la prospettiva dalla quale l’Etiopia è raccontata ci appare fastidiosamente razzista e mistificante rispetto alla realtà storica di quella che fu a tutti gli effetti una conquista violenta, anche se bisogna dare atto al regista che questi motivi restano quasi sempre “tra le righe” e non ostentati.
Vediamo qualche esempio in cui essi riaffiorano in maniera più vistosa. Durante un sontuoso banchetto, il re Menelik, rivolto a Abuna Messias, facendo riferimento a dei poveri etiopi che si avventano bramosamente sul cibo loro offerto in elemosina, esclama desolato: “Vedi? Senza l’aiuto della vostra civiltà, non potrò mai arrivare a farne degli uomini”. E poco dopo: “Ti dicevo che io ho bisogno della vostra civiltà. Che intenzioni ha l’Italia nei miei riguardi?”.
Poco più avanti Abu Messias e il fedele frate Leone, all’entrata di un villaggio contagiato dal vaiolo, trovano un gruppo di indigeni che sta seguendo una danza magica dello stregone. Non tarda la reazione indispettita di Leone ( “E smettila!”) e il più paziente fervorino di Abu Messias che cerca di spiegare allo stregone l’inutilità di quei riti e la necessità di darsi da fare con i malati in maniera più attiva e moderna (subito dopo lo vediamo addirittura produrre autonomamente del vaccino prelevandolo da un vitello). Morale (implicita) della favola: la sottomissione “spontanea” da parte della popolazione etiope alla “superiore” cultura cattolica italiana è l’unica via praticabile per uscire da tanta superstiziosa miseria.
Altro aspetto interessante da sottolineare è la presenza di numerose e lunghe scene di massa, dal sapore decisamente folclorico, inserite ad ogni piè sospinto per sottolineare la coralità della vicenda, in alcuni casi decisamente ridondanti e ripetitive, anche se non prive di una certa suggestione. Alessandrini, erede e continuatore dei grandi film storici in costume (a partire dal capostipite Cabiria), si mostra abile nell’orchestrare in maniera credibile i movimenti delle folle e a rendere con un taglio documentaristico non privo di suggestione il colore locale (costumi, musiche, canti, ecc.), certamente agevolato da una produzione in loco che non ha certo problemi di budget. Lo stesso si può dire per gli interni dove però la presenza di attori bianchi in blackface nei ruoli principali rende meno credibile e più melodrammatica tutta la vicenda.
Il finale è solo apparentemente amaro: l’eroe, sconfitto dai suoi potenti nemici, esiliato dall'imperatore Joannes IV, è costretto nel 1879 ad abbandonare per sempre il paese e ad interrompere la sua benefica azione missionaria. Al momento della partenza, colto da improvviso malore, muore frate Leone, suo fedelissimo compagno di vita e di avventura: morte sostitutiva che rappresenta la fine delle speranze e delle aspirazioni dell’eroe, il quale, forzatamente allontanato, lascia simbolicamente il suo grande cuore in Etiopia. Ma i semi dell’evangelizzazione sono stati sparsi e la lezione di Abuna Messias non sarà dimenticata.
Un’ultima parola sulla convincente interpretazione, sobria e per niente enfatica, di Camillo Pilotto nel ruolo del protagonista.
Tutto da buttare, secondo la tesi applicata da Cesare Zavattini all’intero cinema del ventennio? Personalmente ritengo di sì per quanto riguarda l’impianto ideologico colonialista che sorregge l’intera operazione, salvando però – oltre all’interpretazione di Pilotto - quelle parti più “documentaristiche” in cui il vento della retorica si tace per lasciare spazio a una raffigurazione più vivida, ma soprattutto più onesta e oggettiva dal punto di vista etnografico del popolo etiope, colto negli anni che precedono l’effimera conquista italiana.
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