Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film
Un film che per contenuti e linguaggio credo sarebbe assai piaciuto a McLuhan (ed ai suoi più fedeli seguaci, fra cui in Italia, Renato Barilli, ex-studioso di spicco del movimento “gruppo 63”). Tematicamente il protagonista della pellicola, nell’allucinante progressione verso un “coacervo di carne e acciaio”, organi umani e congegni tecnici, pare effettivamente manifestare una completa metabolizzazione tecnomorfa “di specie meccanica” (così come si potrebbe evincere dalle splendide intuizioni teoriche del sociologo canadese), assurgendo a simbolica ed estrema emanazione dell’uomo moderno, definitivamente plasmato da quella rivoluzione industriale tardo-settecentesca (proveniente a sua volta dal fondamentale impatto dell’invenzione della stampa a caratteri mobili), sulle cui ceneri si è poi avvicendata e “sviluppata” sino ai giorni nostri la società “di specie elettromagnetica” (i sintomi prodromici erano emersi fin dal secondo-ottocento). Tsukamoto è sostanzialmente sensibile alle tesi “della scuola di Toronto” (e prima di lui molti artisti di altre discipline), e di conseguenza alle sollecitazioni del pensiero di quanti vengono ritenuti gli ispiratori delle trasformazioni socio-psicologiche-culturali destinate ad incidere maggiormente nel passaggio “dalla Galassia Gutenberg alla Galassia Elettronica”: ecco quindi Bergson (“Materia e memoria”), Freud (le pulsioni/esplosioni della libido, rivestono qui un ruolo chiave, parimenti al recupero, via Eraserhead, di uno sguardo sottoposto al “flusso di coscienza”) ed infine Einstein (ove la definizione barilliana di “reciproca convertibilità tra energia e massa”, trova in Tetsuo una talentuosa ed originale concretizzazione nella smodata forza sprigionata dai granitici ammassi carnali e disperati, informi e martellanti, mentre la scoperta del ruolo “relativizzante” della velocità della luce si esplica in moti collocati in una dimensione spazio-temporale parallela, repulsivi nelle scene esterne caratterizzate dalle improvvise accelerazioni dei personaggi, ed attrattivi nei luoghi chiusi, con l’avvilupparsi addentro soffocanti, vitali ed onirici gineprai fibro-metallici). Da un punto di vista storico, l’anno dell’opera registra la caduta del muro di Berlino e l’esaurirsi dei temi connessi alla guerra fredda, con la ripercussione secondaria, e tuttavia decisiva, di liberare definitivamente l’attenzione critica sugli atavici mali del sistema capitalistico (il Giappone del 1989 ne è uno dei cuori pulsanti), aprendo un dibattito intellettuale foriero di stimoli. L’autore nipponico si situa in tale contesto come un precursore di (in?)consapevole lungimiranza, riuscendo nell’impresa di sviscerare la catarsi dell’uomo “capitalista e gutemberghiano”, con un antitetico e vigoroso linguaggio post-moderno (subentra dunque il secondo elemento favorevole ad una mini-dissertazione secondo i parametri del “determinismo tecnologico”). Tsukamoto appartiene a pieno titolo (insieme agli antesignani Lynch e Cronenbergh), all’innovativa onda culturale “di tipo elettronico/digitale”, tendente a prediligere un’estetica organicamente frammentaria, votata al riemergere delle istanze dell’inconscio, all’astrazione, all’annientamento delle icasticità del passato. Stilisticamente ne sono segni inequivocabili le scansioni improvvise, simili a corti circuiti temporali, gli stacchi di montaggio repentini e brevissimi, come fossero attivati e poi spenti da un impulso elettrico (rimarcati dall’effetto sonoro tipicamente associato agli sbalzi di tensione), e le straordinarie e già citate immersioni fra infiniti grovigli di fili e tubi, laddove è addirittura plausibile scorgere un tentativo di percezione noumenica, figurativamente debitrice delle “caotiche ed ordinate” composizioni frattali di un altro sommo artista contemporaneo: Jackson Pollock. Sul piano formale, in aggiunta ed a conferma dei suddetti legami, il cineasta conferisce ad ambienti ed individui un’immagine filmica proto-cubista (spazio collassato/compenetrazione dei corpi/plasticità dei volumi), e futurista (ancora i repentini ed innaturali spostamenti!) richiamando quel dinamismo uomo/macchina del Boccioni più ispirato (e “nel continuum di una latente tensione psicofisica” cit. Barilli). Siamo di fronte a risultanze visive di assoluto valore, precedentemente impensabili per la settima arte (se si considerano parzialmente velleitarie le isolate prove avanguardistiche di Léger e L’Herbier negli anni “20). In conclusione, pur ravvisando sul piano interpretativo l’azzardo di un accostamento omologico alle dottrine mcluhaniane, Tetsuo lascia intravedere, ad un’attenta analisi, inedite significatività ben aldilà dei tangibili meriti di uno "splatter" d’autore, pervaso com’è da una potente carica eversiva capace di superare in efficacia le numerose (e perlopiù compassate) vocazioni estetiche del cinema anni “80; un periodo quest’ultimo, essenzialmente dominato da spinte restaurative e normalizzatrici (il ciclico “richiamo all’ordine”) volte a bilanciare gli “eccessi innovatori” degli anni “70 (principalmente ascrivibili alla New Hollywood ed al Neuer Deutscher Film). Con Tetsuo siamo al cospetto di un capolavoro tuttora sommerso, imperfetto ed a tratti risibile, in gran parte sconvolgente, solo a piccole dosi delirante (al contrario della mia recensione :-) ). Un torbido e devastante innesto nel manierismo cinematografico di un decennio (ed un’epoca) al crepuscolo.
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