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The Commitments

Regia di Alan Parker vedi scheda film

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La recensione su The Commitments

di Stefano L
8 stelle

The Commitments (1991): la musica come redenzione | Gli acchiappafilm.it

 

"I’m black and I’m proud": è su questa filosofia di vita che si basano Commitments, una band improvvisata gradualmente dall’idealista Jimmy Rabbitte (Robert Arkins), giovane sognatore che dopo essere stato assoldato in veste di manager da due amici, decide di organizzare e promuovere un complesso di musica nera formato da cantanti/strumentisti naïf più o meno ventenni, cresciuti nel degrado della periferia, e guidati dal precettore del soul Joey 'Lips' Fagan (Johnny Murphy), trombettista che in passato si esibì assieme ai grandi maestri del genere (vengono citati Stevie Wonder e BB King), o almeno è quello a cui Jimmy crede secondo le sue testimonianze (nel film non viene mai rivelato se mente o ha veramente girato l’America con i guru del jazz). La pellicola di Parker è ben approntata nelle sue scenografie, focalizzate negli squarci dei margini della Contea di Dublino: la miseria è chiaramente visibile agli occhi dell’astante, assettata tra i vicoli ove dei bambini giocano in strade grigiastre e locali fumosi colmi di individui dalle facce poco raccomandabili. Una sorta di "Harlem irlandese" dunque; ed è infatti in uno dei centri sociali gestiti dalla Chiesa che ha luogo il primo live, fra batterie fracassate, risse ed incidenti tecnici di vario tipo, come il corto circuito dell’impianto sonoro, meticolosamente preso in prestito da un delinquente, il quale non esiterà a dare la caccia al gruppo quando vorrà farsi ripagare in seguito ai primi show allestiti… Nei monologhi di Rabbitte/Arkins, e nella parte conclusiva in cui i protagonisti dovrebbero dare libero sfogo alle loro doti canore affiancando Wilson Pickett, facendo affidamento alle "vecchie conoscenze" di "The Lips", il lungometraggio assume la forma di una parabola sulla falsa riga di un "En Attendant Godot" melodico, dove Parker, tramite una direzione sobria, e un controllo stabile del cast, smaschera maliardamente (ed è per questo che rimane uno dei lavori meglio riusciti del demiurgo britannico) il valore intrinseco del percorso artistico, e non il tanto agognato "punto d’arrivo"; la fonte letteraria è quella di Roddy Doyle ma la pellicola scimmiotta prevedibilmente qualche cliché di troppo da un altro "cult" dedicato all'R&B, ovvero "The Blues Brothers" di John Landis, vedi l’alternanza rocambolesca tra spettacoli dal vivo e comicità, o Fagan che si presenta all’audizione di Rabbitte perché “è Dio che lo manda, ed è il Signore che suona la sua tromba”: l’appetibile montaggio sagacemente avvicendato al soundtrack e lo humor di fondo rispettosamente commisurato alla declassata comunità sono in ogni caso degli elementi piuttosto graditi, i quali rendono il film (non di certo una novità nel concept) un atto di ossequio verso un microcosmo underground degno di essere rivisto.

 

 

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