Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
S'odono, in una lontananza angosciosamente vicina, gli esplosivi echi della guerra di secessione americana: un avvertimento costante e sinistro, inconfondibile e ineludibile, di quello che c'è là fuori. Dentro, il mondo ovattato, pittoricamente manierato, pennellato finemente da Sofia Coppola (e da una superba fotografia di luci e colori naturalistici). Il contesto – una natura boschiva bucolica, una tipica costruzione ottocentesca già teatro di ricevimenti d'alto rango e ora rifugio/gineceo dimezzato – è un paesaggio, estetico e interiore, impressionista e intimo. Al femminile; ma senza le paranoie e storture dell'odierno femminismo militante. Sceglie con grazia e cura maniacale le inquadrature e i movimenti della macchina da presa, la regista de Il giardino delle vergini suicide: ma alla sensualità del tocco, all'eleganza formale della composizione, alla scelta impeccabile del dettaglio (gli sguardi, una caviglia, i particolari sugli agghindamenti delle ragazze, persino la ferita aperta sanguinante), non corrisponde la necessaria fluidità. Troppi stacchi, troppe sequenze di brevissima entità, raccordi mancati: la sensazione del riempitivo, del frammento che non si incastra come dovrebbe, e comunque inserito, in fase di montaggio, è persistente e disturbante. Più della presunta ferocia, sottopelle, sì, quasi mai in grado però di deflagrare in un'implosione realmente ed efficacemente perturbante. Come le fanciulle imbellettate a festa, come il continuo ribaltamento di ruoli (vero vettore morale ed esplicito portato teorico: i generi si (con)fondono, le linee si oltrepassano, le cose ritornano al loro posto, mutate e trasfigurate da eventi e azioni), come la varia natura umana esibita e condotta sul campo di battaglia (dei sessi, del sesso casto e castrato, della sessualità mutilata): gli elementi tutti dell'animo (individuale e collettivo), scosso e ravvivato dall'intrusione esterna (maschile e nemica), abitano nella superficie trattenuta delle cose che è, da buona intuizione, forma e sostanza, racconto e senso, rappresentazione e direzione, idea (di cinema) e realizzazione (concreta); ma al quadro mancano tratti di congiunzione e toni ed espressioni che sorreggano adeguatamente in particolare psicologie e azioni, decisioni e volontà. Nel non detto, nel non mostrato né esplicato – di per sé scelta certo non disprezzabile, anzi –, finiscono al largo, fuori campo, traiettorie narrative, crescendo della materia tragica, brandelli introspettivi, squartati dalla evidente necessità di far tornare i conti, di dimostrare la tesi, di sfoggiare la propria autorialità. Un peccato, perché l'elaborazione e la messinscena dell'orizzonte femminile – cui il soggetto esterno, uomo e soldato, dall'indole “buona” eppure inevitabilmente venefica, scatena istinti e pulsioni e contraddizioni tipiche di una comunità dello stesso segno – costituiscono un brillante concepimento del tutto personale (di conseguenza, è esercizio tanto inutile quanto deviante qualsiasi paragone con il film omonimo di Don Siegel), nonché una dimostrazione del talento dell'autrice americana nell'assemblare la galleria di volti e corpi. Attrici (da sempre). A ognuna il suo ruolo (la severa capobanda Nicole Kidman, la “prigioniera” Kirsten Dunst – eloquente il suo «Io vorrei essere portata lontana da qui» –, la ribelle Elle Fanning, che avrebbe potuto comunque sfruttare di più, la comprensiva Oona Laurence, e via di seguito) – mentre Colin Farrell s'adegua e s'adagia con compassata complicità – in quello che, come da splendida, significativa inquadratura finale – sempre perfetta: il nastro blu annodato sulle sbarre, il cancello, e loro, in magnifica posa, dopo il (mis)fatto – è un esemplare quadretto non solo di una femminilità pensante ma anche di un modo di intendere e vivere il Cinema.
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