Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film
Una peregrinazione infinita; un calvario insostenibile; la notte dei Paesi dell'Est. Tutto questo, anche di piu', con un finale ambiguo e poco convincente.
CANNES 70 - CONCORSO UFFICIALE.
Dopo un' assenza di cinque anni, l'ucraino Sergei Loznitsa torna sulla croisette: "A gentle creature" - che in originale ha il titolo "Krotkaya", cioe' "Dolce" o pressapoco nei limiti della traduzione - mostra una donna, di cui non sappiamo nulla, intenta ad avere notizie del marito imprigionato dopo che le e' tornata indietro la corrispondenza a lui destinata.
L'opera segue cosi' le pregrinazioni della moglie per ottenere la possibilita' di parlargli o, almeno, sapere che fine abbia fatto. Durante il suo percorso, le si affianca varia umanita' e, stante il suo personaggio praticamente muto, e' proprio quest' ultima a raccontare la normale impossibile quotidianita' di quella terra. La fotografia, di Oleg Mutu, tuttavia, non asseconda la storia. Se, da una parte, sfugge il senso della metafora cui il regista prova a narrare (la terra incarnata in una donna gentile, ma popolata di mostri), poiche' l'espressione attonita della straordinaria Vasilina Makovtseva sembra assecondare lo stato di indifferenza che avvolge il territorio, dall'altra, con un prefinale onirico in violento contrasto con la prima parte, a tratti soporifera, ma di effetto documentaristico, mantiene un'aria vezzosa e narcistica, che non compensa i difetti della pellicola. Le scelte registiche, poi, in alcuni casi sembrano gratuite (si pensi alla suggestione della violenza provata dalla protagonista) mentre in altri telefonate (lo spiegone del sogno, troppo lungo ed evanescente, messo in atto per giustificare la presenza dei personaggi incontrati dalla protagonista lungo il suo cammino) anche se ci sono momenti di straordinario coinvolgimento - l'incontro con l'addetta ai diritti umani e' di un'intensa commozione e permette di approfondire certi temi abusati.
L'odissea di una donna che vede non difficile ma praticamente impossibile discutere con chiunque ne sappia qualcosa, figurarsi essere ricevuti in carcere, diventa cosi' una sconfitta di un sistema che ancora continua a comportarsi come ai tempi della cortina ("cosa ha fatto tuo marito?' , non ha mai una risposta).
Le musiche non sempre convincenti, l'aria perennemente dura delle figure carcerarie (una delle quali disponibile ad addolcirsi di fronte alla telefonata della compagna, per poi tornare rigida subito dopo), soprattutto una durata eccessiva non permettono al film di decollare e alla fine, tutto sa di deja vu: la rappresentazione (che sia Lituana, Ucraina o Russa ha poco conto, perche' resa indistinguibile dal paesaggio neutro) di un territorio - nei fatti, russo - viene cosi' ad essere fagocitata dall'ingombrante sogno finale, simbolo di un'impasse creativa terminale e diventa uguale a tante altre. Resta l'arretratezza di un mondo che vive ai margini della globalizzazione (l'odio per Marx esplicitato ripetutamente da un anziano ad una fontana) e l'ottima performance attoriale, tutti decisamente ben diretti.
Al termine della proiezione, Grand Theatre Lumiere, molti "buu" e diversi fischi hanno provato a sommergere i pochi applausi ricevuti, pur se, spente le luci, il Palais Des Festival ha tributato all'attrice, presente in sala con il regista, un lungo, intenso sbattimani.
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