Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film
Una donna mite, ma non facile alla resa: un nemico da affrontare che accerchia e inghiotte senza remore. Loznitsa costruisce un affresco memorabile senza una vera e decifrabile collocazione temporale, forte di un finale onirico ed asfissiante che ne conferma tempra e coraggio eccezionali.
CANNES 70 - CONCORSO
Cosa può celarsi dietro al mistero di un pacco restituito al mittente, con una motivazione enigmatica e contraddittoria, quando si tratta di un ricorrente invio di viveri e generi di conforto che una riservata e timida donna di campagna invia al marito, carcerato a causa di un omicidio di cui non ci viene chiarito dettaglio alcuno lungp tutta la durata del film?
La donna non sa che pensare, e trova come unica soluzione quella di recarsi di persona presso la prigione che detiene il suo consorte, per conoscere la verità.
Sarà solo l'inizio di un vero e proprio incubo, che vedrà catapultata la mite donnina in una foresta impenetrabile di maglie burocratiche dalle micidiali apparenze ed effetti kafkiani.
Una matassa inestricabile da cui è impossibile uscirne, e che trascina la donna in un vortice onirico a metà strada tra il sogno e l'incubo, ovvero un percorso fitto di insidie, muri di gomma, e trappole micidiali da cui uscirne con un risultato concreto (ovvero semplicemente riuscire ad avere anche solo generiche rassicurazioni sulla sorte del marito), pare un'impresa vieppiù impossibile.
Cos'è molto belle nel film di Loznitsa: innanzi tutto una ambientazione accuratissima di dettagli, ma magicamente pressoché indefinita nel tempo e nello spazio: inizialmente troviamo una donna che raggiunge la propria umile casa accolta da un cane: potremmo trovarci nel 1770 come pure ad inizi '900; poi scorgiamo vecchi autobus che ci spostano verso i '50, poi altri dettagli di oggetti, vetture e circostanze che ci rivelano che, nonostante il macchinoso ingranaggio burocratico d'altri tempi, potremmo tranquillamente trovarci ai giorni nostri.
Altro elemento fantastico: la protagonista assoluta del film, Vasilina Makovtseva, sguardo perennemente atono di chi è consapevole di combattere una battaglia persa da principio, ma che non riesce ad arrendersi e a non continuare a tentare di venirne fuori: quella dell' attrice, risulta una prova tutt'altro che priva di spessore ed il suo il volto dolente, e' probabilmente il più emblematico e significativo di tutto il festival, al punto da non parermi uno sproposito pensare di poter premiare l'attrice come la migliore del Concorso.
Elementi disturbanti: un finale da incubo che catapulta la protagonista, ma non meno noi spettatori, in un vero e proprio girone infernale in cui la poveretta, già circuita ed osteggiata in tutti i modi e le dinamiche da personaggi sciagurati, approfittatori ed in malafede, diviene oggetto di un vero e proprio processo da parte della casta che conta, greve e kitch, secondo un rito dai contorni onirici e viziati da prevaricazione, inganno, e false rassicurazioni.
Non una scelta facile, questa di Loznitsa, che si prende carico di un finale ostico, irritante, infinito come una processione o liturgia estenuante alla quale partecipiamo per costrizione ed obbligo non svicolabili.
Col rischio più che mai concreto di sviarci dall'entusiasmo che un personaggio di vittima designata quasi alla Kaurismaki (in fondo ci troviamo di fronte ad una nuova versione della fiammiferaia del regista finlandese) era riuscita a farci provare.
Dunque onore al merito, e al coraggio del valido regista ukraino, che vedrei favorevolmente tra i piu' meritevoli del premio più prestigioso, ovvero la Palma numero 70.
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