Voto 9
Regia di Taylor Sheridan vedi scheda film
Natalie Hanson: C’è un prato nel mio mondo perfetto. Dove il vento fa danzare i rami di un albero, che gettano macchie di luce sulla superficie di uno stagno. L’albero si erge alto, imponente e solitario, ombreggiando un mondo al di sotto. E’ qui, nella culla di tutto ciò che mi è più caro, che conservo ogni tuo ricordo. E quando mi ritroverò congelata nel pantano della realtà, lontana dai tuoi occhi amorevoli, tornerò in questo posto. Chiuderò i miei, e trarrò conforto nella semplice perfezione di averti conosciuto.
Dopo i grandi successi di critica e pubblico di Sicario e Hell or High Water, Taylor Sheridan decide di uscire dal suo “comodo” ruolo da sceneggiatore per “sporcarsi le mani” come regista nel dirigere il suo “ultimo” capitolo dedicato alla moderna frontiera americana, conscio del fatto che nessun altro “director hollywoodiano” sarebbe riuscito a trasporre degnamente la sua terza sceneggiatura basata su fatti di cronaca a lui molto vicini che dovevano per forza avere un registro unico e differente dagli altri due capitoli ambientati nel “profondo sud” degli Stati Uniti.
Taylor Sheridan ormai maturo dalle esperienze sul set con Denis Villeneuve e David Mackenzie alla regia delle sue sceneggiature, decide di esordire nuovamente come regista (la prima volta nel lontano 2011 con “Vile”, ma che pare essere ormai piuttosto dimenticato da tutti) adottando uno stile molto più meditativo ed introspettivo rispetto ai suoi colleghi nello scavare nelle psicologie dei suoi personaggi, che questa volta decide di immergere ancor più “morbosamente” nella terra di frontiera in cui vivono, dove si abbandonano le calde atmosfere dell’Arizona e del Texas dei primi due capitoli per spostarsi nelle terre gelide e innevate dello spopolato Wyoming.
Il registro stilistico ora al 100% sotto il controllo del noto sceneggiatore americano non vuole però totalmente recidere il suo collegamento “tematico” con i capitoli precedenti da cui eredita le magnifiche inquadrature panoramiche sulle terre di frontiera che inghiottono i protagonisti e le violente scene di sparatoria spesso crude e fulminee, ma grazie al totale controllo creativo di Taylor Sheridan, “Wind River” riprende ancor più esplicitamente la sua forte critica politica e sociale sulla moderna frontiera americana, che grazie anche a un taglio più noir mescolato ad un neo-western sorretto da una solida base thriller, la stessa presa di posizione radicale sulla disagiata condizione dei nativi americani nel film, assume toni ancor più strazianti, drammatici e catartici che portano a mio parere al miglior capitolo di questa splendida trilogia informale realizzata dal genio di Taylor Sheridan.
La trama apre su un paesaggio notturno, glaciale, freddo e innevato in cui Natalie Hanson, una ragazza nativa americana, corre a piedi nudi recitando un catartico e sofferto monologo interiore prima di morire definitivamente per le bassissime temperature date da un ambiente ostile e privo di infrastrutture.
Il giorno dopo il suo cadavere viene rinvenuto da Cory Lambert, un cacciatore specializzato nell’uccidere predatori (membro della United States Fish and Wildlife Service) in modo da proteggere gli allevamenti della sua cittadina situata in una contea spopolata del Wyoming, che contatta le autorità locali che a loro volta contattano l’FBI in quanto la ragazza nativa americana è stata ritrovata in una riserva indiana e dunque potenzialmente vittima di un crimine perseguibile soltanto dalle autorità federali.
Viene inviata dunque sul posto la giovane inesperta agente del “Bureau” Jane Banner che, dopo aver catalogato il cadavere della giovane nativa americana come vittima di stupro, non le viene concesso dal medico dell’autopsia di mettere come causa della sua morte questo crimine visto che “scientificamente” è morta per emorragia polmonare. Dovendo subire questo impasse burocratico, l’agente Jane Banner non può quindi chiamare una squadra di investigazione federale, ma allo stesso tempo non vuole nemmeno lasciare il caso ormai diventato “civile” e non più “penale” nelle mani delle autorità locali in quanto esigue ed incompetenti.
Determinata così a risolvere il caso di stupro nonostante sia abbandonata a sé stessa, decide di fare squadra con Cory Lambert per il suo grande “fiuto” da cacciatore nello scovare “tracce” nell’immensità della riserva indiana di Wind River, dove anche quest’ultimo sfrutta il caso dell’agente dell’FBI per “catturare” i “predatori” di questo orrendo crimine che casualmente risulta affine a ciò che era successo alla sua defunta figlia 3 anni fa, che magari potrebbe essere anche una buona occasione per “redimersi” e trovare definitivamente una pace interiore al lutto che sembra non averlo ancora abbandonato completamente.
La sfida maggiore di questo splendido “Wind River” è di sicuro stato per Taylor Sheridan un ritorno alla regia quasi inaspettato, ma doveroso e coraggioso da parte dello sceneggiatore americano, che incredibilmente non fa risentire minimamente la mancanza delle precedenti regie di Villeneuve e Mackenzie, in cui riesce infatti ad infondere uno stile, seppur parzialmente in continuità sia formale che sostanziale con i precedenti capitoli, ancor più meditativo ed emozionale nella sua freddezza nell’affrontare il tema della moderna frontiera americana, donando alla pellicola una forte componente noir per enfatizzare al meglio la sua critica sociopolitica, e allo stesso tempo infonde delle forti atmosfere neo-western mescolate sapientemente col thriller che servono a bilanciare la “fiction cinematografica” con il mascherato “documentario sociale” che Taylor Sheridan decide di imporre alla visione dello spettatore per mostrargli la disagiata condizione in cui riversa la comunità dei nativi americani nelle riserve indiane, che lui stesso conosce in prima persona avendoci vissuto vicino (proprio alla riserva di Wind River) e documentandosi sui numerosi casi di scomparsa di giovani native americane che poi hanno ispirato la trama del suo film.
La regia glaciale, oscura, raffinata e allo stesso tempo asciutta di Sheridan riesce quindi a raccontare perfettamente le fredde, innevate e spoglie terre del Wyoming, dove la natura viene ripresa come splendidamente aperta, incontaminata, candida, quasi eterea nella sua estrema bellezza, ma che in realtà intrappola, logora, spezza e uccide le poche anime che la popolano, soprattutto i nativi americani che vi ci abitano, emarginati dall’urbanizzazione bianca e imperialista statunitense, che cerca invano di assimilare un popolo che ha quasi sterminato e che rifiuta la sua “sporca” autorità statale e culturale.
La segregazione nelle riserve indiane dei nativi americani e la flebile “integrazione” che si tenta di attuare nei loro confronti, sembrano quindi destinate al perenne fallimento anche quando “autoctoni” e “colonizzatori” sembrano realmente disposti ad accettarsi e ad “amarsi”, come nel caso del cacciatore Coby Lambert, che divorziato dalla sua moglie nativa americana per via della perdita della loro figlia, incarna tragicamente questo eterno conflitto di culture che potrebbero vagamente “pacificarsi”, ma che purtroppo sono entrambe segnate da violenze e ingiustizie quotidiane che non permettono ad un reale ricongiungimento antropologico e culturale.
Il fardello dell’uomo bianco ormai tramontato e tramutato in un incubo ad occhi aperti in queste terre di frontiera dominato dal canone dominante della nazione americana però anch’esso abbandonato a sé stesso dalle istituzioni centrali del paese permettendogli un vuoto legislativo in cui gli stessi cittadini americani di frontiera possono o devono gestire la giustizia a modo proprio, porta ad una disfunzione territoriale e culturale che poi sfocia in violenze, ingiustizie e barbarie di qualsiasi tipo che non si fermano nemmeno agli originari abitanti di queste lande desolate in perfetta sintonia con la natura incontaminata circostante.
All’interno di questo territorio di frontiera selvaggio, violento, predatore e perfettamente adattabile allo stile neo-western che Taylor Sheridan decide di mischiare col noir e il thriller, il protagonista Cory Lambert interpretato da un ottimo Jeremy Renner, incarna quello che lo sceneggiatore definisce “L’uomo senza nome che ho voluto far piangere”, in quanto amante del genere western e dell’attore-regista Clint Eastwood (tant’è che il suo film preferito è “Gli Spietati”), e dunque desideroso di immergere questa figura anti-eroica nel suo neo-western per mostrare la fragilità di un uomo ormai votato freddamente al proprio lavoro di “cacciatore di predatori”, ma che in realtà soffre terribilmente per la perdita di sua figlia.
La volontà di un riscatto morale, il desiderio di vendetta per la figlia defunta, l’impotenza che genera un lutto, ma anche la compassione per i tormentati nativi americani che ormai sono diventati sangue del suo sangue, sono gli elementi che muovono la freddezza e la calorosità di un padre distrutto che porta il peso su di sé di un conflitto etnico-culturale che mai verrà risolto completamente, ma che il recente caso di stupro sotto indagine dalla giovane agente FBI Jane Banner, riaccende in lui un briciolo di speranza in grado forse di risolvere le sue profonde crisi interiori, anche perché la vittima era amica di sua figlia.
Il rinnovato dinamismo che porta il duo ad investigare insieme sul caso di stupro di Natalie Hanson, porta in luce le due facce dell’America, una più giustizialista rappresentata da Cory Lambert perfettamente in linea con l’America profonda, l’altra invece più garantista rappresentata dall’inesperta giovane agente del Bureau Jane Banner, dove quest’ultima essendo “estranea” al luogo e “istituzionalizzata” da una morale ferrea data dall’etica del suo lavoro “federale”, intraprende similmente il percorso dell’altra protagonista femminile in Sicario Kate Macer, dove entrambe mosse da un profondo desiderio di giustizia e nel ricercare la verità ad ogni costo in una nazione profondamente disfunzionale, si ritroveranno davanti ad un profondo sconvolgimento fisico ed emotivo tale da mettere in dubbio il loro stesso lavoro davanti ad una realtà sconfortante, violenta, ingiusta, diseguale, viziosa e viziata nella sua accondiscendenza ad un sistema predatorio che andrebbe riformato radicalmente.
La differenza tra le due figure femminili davanti alle oscenità e alla corruzione dell’uomo, è che nel caso di Wind River la co-protagonista può contare su una figura maschile in grado di garantirle un solido sostegno in quanto anch’essa “contraria” al sistema precostituito, consentendo un percorso di maturazione da “novellina” a “guerriera” dell’agente Jane Banner senza un annichilimento vero e proprio come invece accade a Kate Macer.
Il sostegno reciproco nelle indagini tra il cacciatore e l’agente FBI dunque completa e riempie il grande vuoto dell’indifferenza che pervade gli abitanti del Wyoming, scuotendo la loro stasi quotidiana risvegliandone le profonde frustrazioni e contraddizioni che rivelano nuove piste, nuovi indizi, nuove tracce, amare realtà e momenti di struggente compassione che descrivono un mondo ormai fuori dal tempo dove sia i nativi che gli americani convivono in un inferno di ghiaccio in cui citando letteralmente dal film: “La fortuna qui è merce rara. La fortuna qui non arriva”.
Ed è da questo tragico assunto che si dipana la lenta, introspettiva, meditativa e profonda narrazione di Taylor Sheridan, che attraverso un caso di indagine di due “cacciatori” descrive il profondo disagio in cui riversano i nativi americani ormai confinati come “bestie” dallo stato federale americano, che non riuscendo ad assimilare completamente la popolazione autoctona che ha sterminato per appropriarsi delle sue terre, ha deciso di segregarli nelle famose riserve indiane spingendo soprattutto i giovani nativi americani nella totale disperazione e nel profondo odio verso le istituzioni statunitensi, portando quest’ultimi a spacciare e a drogarsi in una vita ormai sempre più priva di certezze, precaria e disumana.
Il profondo malessere sociale però non lo provano soltanto coloro che ormai rappresentano un’etnia volutamente dimenticata dallo Stato, ma anche gli stessi americani che vivono in quelle gelide terre senza speranza, dove i costanti orizzonti innevati e il clima inospitale risvegliano gli istinti più barbari e primordiali dell’uomo che portano infatti al caso di stupro della povera Natalie Hanson.
La rivelazione dei fatti accaduti prima del crimine giocata magistralmente dalla regia di Sheridan attraverso un’analessi temporale introdotta da un raccordo di suono inserito in un taglio montaggio degno dei migliori registi del nostro tempo, mostra nella sua totale dolcezza e crudezza il potenziale inizio e la fine del sogno americano di Natalie Hanson e del suo fidanzato guardiano di un impianto petrolifero di nome Matt, volenterosi di fuggire dall’inferno di ghiaccio del Wyoming, ma brutalmente martoriati e assassinati in quello stesso ambiente che reputavano la loro “dolce fredda casa”.
La critica alle corporazioni petrolifere e dunque all’ordine “padronale” che ormai esercitano le grandi aziende sui territori di frontiera americani sempre più lontani dalla legge federale, ritorna prepotentemente nel denunciare una vera e propria prevaricazione territoriale e giuridica che riporta letteralmente quei territori strappati dalle grandi aziende ad un regime quasi feudale dove qualsiasi nefandezza può essere tacitamente consentita.
Lo scontro violento tra “autorità pubblica” e “autorità privata” non può quindi che acuire le ingiustizie sociali già presenti nell’entroterra statunitense, che vivendo di questa contraddizione profonda e lacerante come nel resto della nazione, porta all’eterno stato di belligeranza sia fisico che psicologico che affligge la popolazione americana illustrato un’altra volta egregiamente da Taylor Sheridan nel famoso stallo alla messicana tra il gruppo di poliziotti locali insieme all’agente FBI Jane Banner e la milizia dell’azienda di estrazione petrolifera, che si conclude con un’immensa e rapida carneficina tipico dei western, genere e mito fondante della frontiera americana.
I dilemmi etici e morali all’interno di Wind River non si discostano dunque dagli altri capitoli dedicati alla moderna frontiera americana descritta splendidamente dal regista, sceneggiatore e anche attore Taylor Sheridan, che conscio delle profonde fratture sociali e politiche dell’America profonda, regala con questo capitolo finale il lungometraggio più completo, naturalistico, drammatico, emozionale, catartico, profondo ed esplicitamente di denuncia sociale, coniugando egregiamente l’intrattenimento filmico con profonde analisi sociopolitiche e antropologiche su una porzione di mondo spesso sconosciuta all’opinione pubblica, ma che andrebbe discussa e spiegata anche didatticamente nelle scuole, per meglio comprendere la storia, la struttura, la cultura e la sfacciata, ma spesso celata, vocazione imperiale degli Stati Uniti, spesso troppo edulcorati e mal compresi grazie al soft power hollywoodiano (e non solo).
Taylor Sheridan dopo aver regalato i più profondi e toccanti dialoghi della sua intera trilogia informale in Wind River tra cui quelli dei due padri affranti dal dolore della perdita delle loro figlie, ha deciso di ampliare la sua riflessione sulla moderna frontiera americana e dunque il suo personale “universo cinematografico”, ideando nel 2018 una serie tv dalle tinte western di nome Yellowstone definendola “il suo Padrino versione western”.
Per il Cinema invece sembra che abbia già concluso, dopo la sua pausa televisiva, la direzione del suo nuovo film “Those Who Wish Me Dead”, che sembra anch’esso incasellato tematicamente al suo progetto frontaliero e che quindi potrebbe trasformare la sua trilogia informale in una quadrilogia.
Attendendo con trepidazione il suo nuovo progetto cinematografico, credo che Wind River possa considerarsi la summa della sua neonata poetica originatasi da Sicario, passando per Hell or High Water, anche per come sia riuscito a dimostrarsi un ottimo regista oltre che un grande sceneggiatore, che spero in futuro ci regali altre opere degne di essere ricordate, analizzate, sviscerate e riflettute in modo da tenere viva una qualità filmica anche in termini di critica politico-sociale che oggi più che mai necessiterebbe di un sempre maggior spazio nell’industria cinematografica internazionale.
Voto 9
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