Voto 9
Regia di Taylor Sheridan vedi scheda film
Natalie Hanson: C’è un prato nel mio mondo perfetto. Dove il vento fa danzare i rami di un albero, che gettano macchie di luce sulla superficie di uno stagno. L’albero si erge alto, imponente e solitario, ombreggiando un mondo al di sotto. E’ qui, nella culla di tutto ciò che mi è più caro, che conservo ogni tuo ricordo. E quando mi ritroverò congelata nel pantano della realtà, lontana dai tuoi occhi amorevoli, tornerò in questo posto. Chiuderò i miei, e trarrò conforto nella semplice perfezione di averti conosciuto.
Dopo i grandi successi di critica e pubblico di Sicario e Hell or High Water, Taylor Sheridan decide di uscire dal suo “comodo” ruolo da sceneggiatore per “sporcarsi le mani” come regista nel dirigere il suo “ultimo” capitolo dedicato alla moderna frontiera americana, conscio del fatto che nessun altro “director hollywoodiano” sarebbe riuscito a trasporre degnamente la sua terza sceneggiatura basata su fatti di cronaca a lui molto vicini che dovevano per forza avere un registro unico e differente dagli altri due capitoli ambientati nel “profondo sud” degli Stati Uniti.
Taylor Sheridan ormai maturo dalle esperienze sul set con Denis Villeneuve e David Mackenzie alla regia delle sue sceneggiature, decide di esordire nuovamente come regista (la prima volta nel lontano 2011 con “Vile”, ma che pare essere ormai piuttosto dimenticato da tutti) adottando uno stile molto più meditativo ed introspettivo rispetto ai suoi colleghi nello scavare nelle psicologie dei suoi personaggi, che questa volta decide di immergere ancor più “morbosamente” nella terra di frontiera in cui vivono, dove si abbandonano le calde atmosfere dell’Arizona e del Texas dei primi due capitoli per spostarsi nelle terre gelide e innevate dello spopolato Wyoming.
Il registro stilistico ora al 100% sotto il controllo del noto sceneggiatore americano non vuole però totalmente recidere il suo collegamento “tematico” con i capitoli precedenti da cui eredita le magnifiche inquadrature panoramiche sulle terre di frontiera che inghiottono i protagonisti e le violente scene di sparatoria spesso crude e fulminee, ma grazie al totale controllo creativo di Taylor Sheridan, “Wind River” riprende ancor più esplicitamente la sua forte critica politica e sociale sulla moderna frontiera americana, che grazie anche a un taglio più noir mescolato ad un neo-western sorretto da una solida base thriller, la stessa presa di posizione radicale sulla disagiata condizione dei nativi americani nel film, assume toni ancor più strazianti, drammatici e catartici che portano a mio parere al miglior capitolo di questa splendida trilogia informale realizzata dal genio di Taylor Sheridan.
I segreti di Wind River (2017): Elizabeth Olsen, Taylor Sheridan
La trama apre su un paesaggio notturno, glaciale, freddo e innevato in cui Natalie Hanson, una ragazza nativa americana, corre a piedi nudi recitando un catartico e sofferto monologo interiore prima di morire definitivamente per le bassissime temperature date da un ambiente ostile e privo di infrastrutture.
Il giorno dopo il suo cadavere viene rinvenuto da Cory Lambert, un cacciatore specializzato nell’uccidere predatori (membro della United States Fish and Wildlife Service) in modo da proteggere gli allevamenti della sua cittadina situata in una contea spopolata del Wyoming, che contatta le autorità locali che a loro volta contattano l’FBI in quanto la ragazza nativa americana è stata ritrovata in una riserva indiana e dunque potenzialmente vittima di un crimine perseguibile soltanto dalle autorità federali.
Viene inviata dunque sul posto la giovane inesperta agente del “Bureau” Jane Banner che, dopo aver catalogato il cadavere della giovane nativa americana come vittima di stupro, non le viene concesso dal medico dell’autopsia di mettere come causa della sua morte questo crimine visto che “scientificamente” è morta per emorragia polmonare. Dovendo subire questo impasse burocratico, l’agente Jane Banner non può quindi chiamare una squadra di investigazione federale, ma allo stesso tempo non vuole nemmeno lasciare il caso ormai diventato “civile” e non più “penale” nelle mani delle autorità locali in quanto esigue ed incompetenti.
Determinata così a risolvere il caso di stupro nonostante sia abbandonata a sé stessa, decide di fare squadra con Cory Lambert per il suo grande “fiuto” da cacciatore nello scovare “tracce” nell’immensità della riserva indiana di Wind River, dove anche quest’ultimo sfrutta il caso dell’agente dell’FBI per “catturare” i “predatori” di questo orrendo crimine che casualmente risulta affine a ciò che era successo alla sua defunta figlia 3 anni fa, che magari potrebbe essere anche una buona occasione per “redimersi” e trovare definitivamente una pace interiore al lutto che sembra non averlo ancora abbandonato completamente.
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner, Elizabeth Olsen
La sfida maggiore di questo splendido “Wind River” è di sicuro stato per Taylor Sheridan un ritorno alla regia quasi inaspettato, ma doveroso e coraggioso da parte dello sceneggiatore americano, che incredibilmente non fa risentire minimamente la mancanza delle precedenti regie di Villeneuve e Mackenzie, in cui riesce infatti ad infondere uno stile, seppur parzialmente in continuità sia formale che sostanziale con i precedenti capitoli, ancor più meditativo ed emozionale nella sua freddezza nell’affrontare il tema della moderna frontiera americana, donando alla pellicola una forte componente noir per enfatizzare al meglio la sua critica sociopolitica, e allo stesso tempo infonde delle forti atmosfere neo-western mescolate sapientemente col thriller che servono a bilanciare la “fiction cinematografica” con il mascherato “documentario sociale” che Taylor Sheridan decide di imporre alla visione dello spettatore per mostrargli la disagiata condizione in cui riversa la comunità dei nativi americani nelle riserve indiane, che lui stesso conosce in prima persona avendoci vissuto vicino (proprio alla riserva di Wind River) e documentandosi sui numerosi casi di scomparsa di giovani native americane che poi hanno ispirato la trama del suo film.
La regia glaciale, oscura, raffinata e allo stesso tempo asciutta di Sheridan riesce quindi a raccontare perfettamente le fredde, innevate e spoglie terre del Wyoming, dove la natura viene ripresa come splendidamente aperta, incontaminata, candida, quasi eterea nella sua estrema bellezza, ma che in realtà intrappola, logora, spezza e uccide le poche anime che la popolano, soprattutto i nativi americani che vi ci abitano, emarginati dall’urbanizzazione bianca e imperialista statunitense, che cerca invano di assimilare un popolo che ha quasi sterminato e che rifiuta la sua “sporca” autorità statale e culturale.
La segregazione nelle riserve indiane dei nativi americani e la flebile “integrazione” che si tenta di attuare nei loro confronti, sembrano quindi destinate al perenne fallimento anche quando “autoctoni” e “colonizzatori” sembrano realmente disposti ad accettarsi e ad “amarsi”, come nel caso del cacciatore Coby Lambert, che divorziato dalla sua moglie nativa americana per via della perdita della loro figlia, incarna tragicamente questo eterno conflitto di culture che potrebbero vagamente “pacificarsi”, ma che purtroppo sono entrambe segnate da violenze e ingiustizie quotidiane che non permettono ad un reale ricongiungimento antropologico e culturale.
Il fardello dell’uomo bianco ormai tramontato e tramutato in un incubo ad occhi aperti in queste terre di frontiera dominato dal canone dominante della nazione americana però anch’esso abbandonato a sé stesso dalle istituzioni centrali del paese permettendogli un vuoto legislativo in cui gli stessi cittadini americani di frontiera possono o devono gestire la giustizia a modo proprio, porta ad una disfunzione territoriale e culturale che poi sfocia in violenze, ingiustizie e barbarie di qualsiasi tipo che non si fermano nemmeno agli originari abitanti di queste lande desolate in perfetta sintonia con la natura incontaminata circostante.
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner, Julia Jones
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner, Teo Briones
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner
All’interno di questo territorio di frontiera selvaggio, violento, predatore e perfettamente adattabile allo stile neo-western che Taylor Sheridan decide di mischiare col noir e il thriller, il protagonista Cory Lambert interpretato da un ottimo Jeremy Renner, incarna quello che lo sceneggiatore definisce “L’uomo senza nome che ho voluto far piangere”, in quanto amante del genere western e dell’attore-regista Clint Eastwood (tant’è che il suo film preferito è “Gli Spietati”), e dunque desideroso di immergere questa figura anti-eroica nel suo neo-western per mostrare la fragilità di un uomo ormai votato freddamente al proprio lavoro di “cacciatore di predatori”, ma che in realtà soffre terribilmente per la perdita di sua figlia.
La volontà di un riscatto morale, il desiderio di vendetta per la figlia defunta, l’impotenza che genera un lutto, ma anche la compassione per i tormentati nativi americani che ormai sono diventati sangue del suo sangue, sono gli elementi che muovono la freddezza e la calorosità di un padre distrutto che porta il peso su di sé di un conflitto etnico-culturale che mai verrà risolto completamente, ma che il recente caso di stupro sotto indagine dalla giovane agente FBI Jane Banner, riaccende in lui un briciolo di speranza in grado forse di risolvere le sue profonde crisi interiori, anche perché la vittima era amica di sua figlia.
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner
Il rinnovato dinamismo che porta il duo ad investigare insieme sul caso di stupro di Natalie Hanson, porta in luce le due facce dell’America, una più giustizialista rappresentata da Cory Lambert perfettamente in linea con l’America profonda, l’altra invece più garantista rappresentata dall’inesperta giovane agente del Bureau Jane Banner, dove quest’ultima essendo “estranea” al luogo e “istituzionalizzata” da una morale ferrea data dall’etica del suo lavoro “federale”, intraprende similmente il percorso dell’altra protagonista femminile in Sicario Kate Macer, dove entrambe mosse da un profondo desiderio di giustizia e nel ricercare la verità ad ogni costo in una nazione profondamente disfunzionale, si ritroveranno davanti ad un profondo sconvolgimento fisico ed emotivo tale da mettere in dubbio il loro stesso lavoro davanti ad una realtà sconfortante, violenta, ingiusta, diseguale, viziosa e viziata nella sua accondiscendenza ad un sistema predatorio che andrebbe riformato radicalmente.
La differenza tra le due figure femminili davanti alle oscenità e alla corruzione dell’uomo, è che nel caso di Wind River la co-protagonista può contare su una figura maschile in grado di garantirle un solido sostegno in quanto anch’essa “contraria” al sistema precostituito, consentendo un percorso di maturazione da “novellina” a “guerriera” dell’agente Jane Banner senza un annichilimento vero e proprio come invece accade a Kate Macer.
Il sostegno reciproco nelle indagini tra il cacciatore e l’agente FBI dunque completa e riempie il grande vuoto dell’indifferenza che pervade gli abitanti del Wyoming, scuotendo la loro stasi quotidiana risvegliandone le profonde frustrazioni e contraddizioni che rivelano nuove piste, nuovi indizi, nuove tracce, amare realtà e momenti di struggente compassione che descrivono un mondo ormai fuori dal tempo dove sia i nativi che gli americani convivono in un inferno di ghiaccio in cui citando letteralmente dal film: “La fortuna qui è merce rara. La fortuna qui non arriva”.
I segreti di Wind River (2017): Elizabeth Olsen
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner, Elizabeth Olsen
Ed è da questo tragico assunto che si dipana la lenta, introspettiva, meditativa e profonda narrazione di Taylor Sheridan, che attraverso un caso di indagine di due “cacciatori” descrive il profondo disagio in cui riversano i nativi americani ormai confinati come “bestie” dallo stato federale americano, che non riuscendo ad assimilare completamente la popolazione autoctona che ha sterminato per appropriarsi delle sue terre, ha deciso di segregarli nelle famose riserve indiane spingendo soprattutto i giovani nativi americani nella totale disperazione e nel profondo odio verso le istituzioni statunitensi, portando quest’ultimi a spacciare e a drogarsi in una vita ormai sempre più priva di certezze, precaria e disumana.
Il profondo malessere sociale però non lo provano soltanto coloro che ormai rappresentano un’etnia volutamente dimenticata dallo Stato, ma anche gli stessi americani che vivono in quelle gelide terre senza speranza, dove i costanti orizzonti innevati e il clima inospitale risvegliano gli istinti più barbari e primordiali dell’uomo che portano infatti al caso di stupro della povera Natalie Hanson.
La rivelazione dei fatti accaduti prima del crimine giocata magistralmente dalla regia di Sheridan attraverso un’analessi temporale introdotta da un raccordo di suono inserito in un taglio montaggio degno dei migliori registi del nostro tempo, mostra nella sua totale dolcezza e crudezza il potenziale inizio e la fine del sogno americano di Natalie Hanson e del suo fidanzato guardiano di un impianto petrolifero di nome Matt, volenterosi di fuggire dall’inferno di ghiaccio del Wyoming, ma brutalmente martoriati e assassinati in quello stesso ambiente che reputavano la loro “dolce fredda casa”.
La critica alle corporazioni petrolifere e dunque all’ordine “padronale” che ormai esercitano le grandi aziende sui territori di frontiera americani sempre più lontani dalla legge federale, ritorna prepotentemente nel denunciare una vera e propria prevaricazione territoriale e giuridica che riporta letteralmente quei territori strappati dalle grandi aziende ad un regime quasi feudale dove qualsiasi nefandezza può essere tacitamente consentita.
Lo scontro violento tra “autorità pubblica” e “autorità privata” non può quindi che acuire le ingiustizie sociali già presenti nell’entroterra statunitense, che vivendo di questa contraddizione profonda e lacerante come nel resto della nazione, porta all’eterno stato di belligeranza sia fisico che psicologico che affligge la popolazione americana illustrato un’altra volta egregiamente da Taylor Sheridan nel famoso stallo alla messicana tra il gruppo di poliziotti locali insieme all’agente FBI Jane Banner e la milizia dell’azienda di estrazione petrolifera, che si conclude con un’immensa e rapida carneficina tipico dei western, genere e mito fondante della frontiera americana.
I dilemmi etici e morali all’interno di Wind River non si discostano dunque dagli altri capitoli dedicati alla moderna frontiera americana descritta splendidamente dal regista, sceneggiatore e anche attore Taylor Sheridan, che conscio delle profonde fratture sociali e politiche dell’America profonda, regala con questo capitolo finale il lungometraggio più completo, naturalistico, drammatico, emozionale, catartico, profondo ed esplicitamente di denuncia sociale, coniugando egregiamente l’intrattenimento filmico con profonde analisi sociopolitiche e antropologiche su una porzione di mondo spesso sconosciuta all’opinione pubblica, ma che andrebbe discussa e spiegata anche didatticamente nelle scuole, per meglio comprendere la storia, la struttura, la cultura e la sfacciata, ma spesso celata, vocazione imperiale degli Stati Uniti, spesso troppo edulcorati e mal compresi grazie al soft power hollywoodiano (e non solo).
I segreti di Wind River (2017): Jeremy Renner, Gil Birmingham
Taylor Sheridan dopo aver regalato i più profondi e toccanti dialoghi della sua intera trilogia informale in Wind River tra cui quelli dei due padri affranti dal dolore della perdita delle loro figlie, ha deciso di ampliare la sua riflessione sulla moderna frontiera americana e dunque il suo personale “universo cinematografico”, ideando nel 2018 una serie tv dalle tinte western di nome Yellowstone definendola “il suo Padrino versione western”.
Per il Cinema invece sembra che abbia già concluso, dopo la sua pausa televisiva, la direzione del suo nuovo film “Those Who Wish Me Dead”, che sembra anch’esso incasellato tematicamente al suo progetto frontaliero e che quindi potrebbe trasformare la sua trilogia informale in una quadrilogia.
Attendendo con trepidazione il suo nuovo progetto cinematografico, credo che Wind River possa considerarsi la summa della sua neonata poetica originatasi da Sicario, passando per Hell or High Water, anche per come sia riuscito a dimostrarsi un ottimo regista oltre che un grande sceneggiatore, che spero in futuro ci regali altre opere degne di essere ricordate, analizzate, sviscerate e riflettute in modo da tenere viva una qualità filmica anche in termini di critica politico-sociale che oggi più che mai necessiterebbe di un sempre maggior spazio nell’industria cinematografica internazionale.
Voto 9
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L'ho visto questa estate su Sky ma non ero in grado dientusiarmarmi di niente per il discorso della pandemia, Recensione meditata come solo in pochi sapete fare,Bravo;_))
Grazie bufera per le tue bellissime parole spese per questa mia recensione e mi dispiace un sacco che tu non sia riuscita godertelo a pieno il film per colpa della situazione generale della pandemia.
Spero dunque che con questo mio scritto sia riuscito ad invogliarti a rivederlo un giorno questo immenso film "invernale" perché merita davvero di essere assaporato in ogni sua sfumatura, a partire dalle immense panoramiche innevate che restituiscono un'atmosfera gelida ma unica.
Alla prossima recensione/play bufera e spero che in questo secondo lockdown tu stia meglio rispetto a quest'estate.
Un caro saluto e un forte abbraccio da parte mia in questi tempi duri in cui bisogna per forza stringere i denti e andare avanti (come i personaggi di questo film).
Sì in effetti prima di questo titolo, Taylor Sheridan aveva già diretto (credo nel 2011) un altro film passato praticamente inosservato (questo Vile a cui accenni tu e che nemmeno io ho visto) che viene in genere classificato come appartenente al genere horror. Difficile parlare di qualcosa che non si è visionato ma a me da quanto ho letto in giro, sembra più un film girato su commissione, quasi da apprendistato dove fra l’altro né il soggetto e la sceneggiatura né il soggetto non sono suoi, ma bensì di Eric Jay Beck e Rob Kowsaluk (comunque ispirato con qualche variazione, al celebre esperimento di psicologia sociale condotto nel 1961 dallo psicologo americano Stanley Milgram (New York, 15 agosto 1933 – New York, 20 dicembre 1984). Esperimento che credo finanziato dall’Università di Yale che iniziò tutt’altro che casualmente, solo tre mesi dopo l’inizio del processo al criminale nazista Adolf Eichman nella città di Gerusalemme e il cui obiettivo era lo studio dei comportamenti di soggetti ai quali un’autorità riconosciuta come tale,dava ordini precisi anche nefandi, in conflitto totale con i valori etici e morali dei soggetti che erano stati arruolati. Se ti interessa, sul web puoi trovare notizie più precise e dettagliate, ma potresti documentarti anche vedendo il film Experimenter scritto e diretto nel 2015 da Michael Almereyda che racconta appunto la storia di questo esperimento con accenni anche alla vita dello stesso Milgram). Ovviamente in Vile, anche se ci si ispira a questo esperimento, poi ci si sosta verso azioni davvero più orrori fiche (i protagonisti sono quattro amici rapiti da un pazzo che vengono rinchiusi in una casa con altre sei persone e dove ciascuno prigioniero deve sopportare torture potenzialmente letali per riempire un dispositivo attaccato alle loro teste).Detto questo, personalmente ritengo che, indipendentemente da quello che potrebbe essere il suo valore, Vile sia un’opera che abbia davvero poco da spartire con il presente di questo eccellente sceneggiatore/regista (che dovrebbe farti un monumento per questo tuo straordinario racconto in sequenza della sua cosiddetta trilogia della frontiera sulla quale anche io posso discernere un poco (anche se ho visto solo una parte delle tre le pellicole di riferimento) con particolare riferimento a questo titolo con cui il regista esplora forse l’aspetto più complesso e tangibile delle contraddizioni della frontiera americana e dove i cowboy sono miseramente tramontati insieme al sogno americano. C’è davvero poco da aggiungere all’eccellente racconto che ne hai fatto tu in aggiunta e a complemento di tutte le altre altrettanto ottime recensioni che precedono la tua su questo sito. Considerato da qualcuno come una specie di risposta a Fargo con cui condivide il luccicante biancore delle le immacolate cime innevate che fanno da sfondo alla vicenda (qui quelle delle montagne dello Wyoming) che a me fanno tornare alla mente per l’analogo impatto emotivo che producono anche Soldi sporchi di Raimi oltre a un altro capolavoro dei Coen come Non è un paese per vecchi dove però la neve è sostituita dalle assolate e polverose sabbie del deserto texano che a me comunque producono lo stesso effeto emozionale.. Purtroppo come sai, mi manca all’appello anche la serie televisiva che forse le l’avessi vista avrebbe potuto stimolarmi ulteriori apparentamenti concettuali con altre opere che, se ci si sposta sul versante letterario, mi vengono per esempio suggerite da un’altra trilogia: quella scritta da Cormac McCarthy con i romanzi Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura . Di fatto, qui Sheridan racconta la morte di un mito che una volta guidava i pionieri alla ricerca di un futuro migliore ed è proprio attraverso questa storia particolarmente coinvolgente (un westerm che si tinge di giallo e di noir)che Sheridan mette in scena il ritratto impietoso di un mondo senza speranza in cui le leggi della natura prevalgono su quelle degli uomini e in cui l’uomo, difeso solo dalla sua pistola, deve battersi come un lupo braccato per sopravvivere. Non esiste un avvenire insomma perché qui ognuno deve necessariamente pensare solo a se stesso se vuole rimanere a galla e non finire a faccia in giù nella neve . Nella bellissima immagine conclusiva, il regista ci mostra due personaggi, entrambi colpiti nel profondo degli affetti dalla violenza degli uomini, che siedono silenziosi davanti a una casa con gli occhi persi nello spazio che li avvolge e questo, insieme a tanti altri momenti altrettanto convincenti, anche una buona dose di introspezione psicologica.
Di nuovi quindi i miei più vivi e sinceri complimento per questa tua scrittura fluida e corposa che dà senso e vigore ad ogni tua parola che riesci sempre a mette nel posto giusto..
Come sempre spopola ogni tuo intervento mi riempie di gioia e saggezza, imparo sempre qualcosa di nuovo ogni volta che commenti con costanza e passione ogni mio scritto, e magari mi facessero una statua per questo mio "umile" lavoro, io mi accontenterei anche di una semplice "anteprima" mondiale del suo prossimo film, ma forse lì è già chiedere troppo, quel posto meglio lasciarlo agli addetti ai lavori, io alla fine sono solo un piccolo "recensore" di filmtv ;)
La statua invece dovrebbero farla a te nonostante tu non apprezzi gli altarini, anche per l'enorme apporto cinefilo che hai dato a questo sito sin dagli albori, io alla fine sono l'ultima ruota del carro che spera di poter dare un minimo contributo a questa splendida comunità di cinefili che è filmtv, un perfetto "feudo" all'interno del web in cui poter condividere le proprie passioni cinematografiche senza subire l'imperante superficialità dei vari social media.
Ti ringrazio quindi per le numerose informazioni che mi hai dato su "Vile" che arricchiscono già questa densa recensione su un film che andrebbe visto e rivisto anche nelle scuole a mio parere, perché come affermi pure tu, Taylor Sheridan confeziona l'opera più complessa ed emozionale nell'evidenziare le deficienze strutturali di queste terre di frontiera che non si allontanano molto dal "Terzo Mondo", inoltre in questo film il regista esplicitamente denuncia una vera e propria ingiustizia nei confronti dei nativi americani che non può lasciare indifferenti, infatti il finale è liberatorio per certi versi, ma allo stesso tempo straziante che forse non darà mai pace sia agli "autoctoni" sia ai "colonizzatori".
Insomma, un'opera veramente pregna di sottotesti e dialoghi monumentali che fanno gelare il sangue perché terribilmente radicati nella nostra realtà, dove le barbarie non cesseranno mai di esistere se non si intraprenderà una forte politica radicale in tutela di queste minoranze ma anche delle diseguaglianze sociali ed economiche che stanno logorando non solo "Il Terzo Mondo", ma anche lo stesso "civilizzato" Occidente, che più che mai oggi dovrebbe mutare radicalmente in senso "socialista" se non vorrà ritrovarsi un domani a pagare un conto salatissimo nei confronti di coloro che hanno sempre sofferto sotto le sue prepotenze presenti e passate. Dove vige il benessere di uno vive il malessere dell'altro, è così che funziona in questo mondo corrotto sempre più "fascio-capitalista", dove non si offrono reali alternative allo status quo imperante che sta veramente soffocando anche le persone più ignare di questo sistema marcio fino al midollo.
E niente, dopo questo piccolo "sfogo" momentaneo ma doveroso vista la natura del film che apre potenzialmente a mille digressioni che vanno ben oltre la questione dei nativi americani, terrò in considerazione anche tutti i tuoi riferimenti bibliografici e cinematografici come sempre preziosissimi data l'ignoranza del sottoscritto.
Lo scrittore Cormac McCarthy confesso che non mi era nuovo perché avevo visto a suo tempo la trasposizione di un suo romanzo ovvero "Non è un paese per vecchi" firmato dai grandissimi fratelli Coen, un vero e proprio capolavoro di film e concordo con il tuo entusiasmante giudizio, tra l'altro emblematico il titolo che non fa altro che confermare la natura intrinseca della società americana che è perennemente immersa in un stato di belligeranza che non può che favorire una società violenta, giovane e profondamente ingiusta. L'opposto dell'Italia insomma, che invece non è un paese per giovani, ma quella è un'altra lunga storia influenzata da altri fattori, però mi piace sempre sottolineare questo triste ed ironico parallelismo (forse la mia ironia sarà la mia assassina ;D).
Per quanto riguarda Fargo, ho apprezzato anch'io il film innevato dei Coen, però gli preferisco Wind River a "pelle", poi è ovvio che uno è un capolavoro e l'altro invece per ora solo un buon film (per me splendido invece e meritevole delle 4 stellette e mezzo, ma di solito come ben sai sono sempre di "manica larga" coi voti).
Per quanto riguarda "Soldi Sporchi" di Raimi non riesco proprio a trovarlo da nessuna parte (almeno nei canali ufficiali), però non vedo l'ora di vederlo nel breve termine anche perché i film immersi nella neve mi intrigano parecchio come il capolavoro tarantiniano "The Hateful Eight" (5 stellette senza se e senza ma, la neve da quel punto in più per le atmosfere magnifiche che però sono funzionali a raccontare un'altra ferita profonda degli Stati Uniti, ovvero la Guerra di Secessione Americana, che oggi più che mai il suo spettro si sta di nuovo abbattendo sul suolo statunitense).
Se hai altri film "innevati" da consigliarmi ben venga caro spopola, tra l'altro anche obyone mi aveva consigliato dei titoli molto interessanti a tema "neve" sotto la sua splendida recensione sempre su questo film, e confermo che tutte le altre recensioni sono ottime nel sottolineare i pregi di un'opera meritevole di maggior considerazione negli ambienti più mainstream.
Nel mio piccolo ho cercato di dare una "certa" visibilità a questo splendido progetto "trilogico" transfrontaliero perché merita davvero, e Taylor Sheridan spero diventi un grande autore in modo che possa risollevare la crisi creativa di una Hollywood sempre più corporativa ed omologata nell'offerta di film.
Ti ringrazio dunque carissimo per avermi accompagnato (come sempre) anche in questo mio piccolo progetto trilogico che sancisce per quest'anno la fine delle mie attività "da recensore" su filmtv a meno che non riaprano i Cinema (ma ne dubito altamente e l'offerta non so se sarà allettante da meritare qualche recensione).
A questo punto non potrò dire né "alla prossima recensione" e né "ci vediamo l'anno prossimo", quindi ti dirò "alla prossima play riassuntiva di questa trilogia informale di Taylor Sheridan" e al mio "prossimo" "primo" "post" a fine anno ;)
Un caro saluto, un forte abbraccio e come sempre un semplice GRAZIE non basta mai di fronte all'immensità della tua disponibilità nel seguirmi assiduamente con passione in questo mio "animato" percorso cinefilo su filmtv.
Con la neve e sulla neve (spesso artificiale) il cinema è pieno di pellicole spesso leggere e vacanziere oppure del genere disaster Movie). ma non sempre è un valore aggiunto. Un film che mi sento di consigliarti caldamente è Affliction di Paul Schrader (qui le vette innevate del New Hampshire che dopo una falsa partenz ada thriller sfocia in un dramma in un dramma familiare. prefe4risco invece suggeriti altri film che traggono origine da romanzi di Cormac McCarthy che sno molteplici (e spesso molto interessanti; Passione ribelle , regia di Billy Bob Thornton (2000) tratto dal romanzo Cavalli selvaggi ; The Road, regia di John Hillcoat (2009); Outer Dark, adattato e diretto da Stephen Imwalle (2009); The Counselor - Il procuratore (The Counselor), regia di Ridley Scott (2013); Child of God, regia di James Franco (2013). Ci sarebbero anche Sunset Limited diretto ancora di Tommy Lee Jones (2011) e • The Gardener's Son, regia tv di Richard Pearce (per la serie Visions) (1976) ma sono film girati per la televisione. Taylort poi è un poco come te:con la regia è alle prime armi ma per me siete entraqmbi già "grandi" (per te non certo come età ma per importanza dei risultati raggiunti .e ... (lasciami chiosare) tienilka stretta questa tuo salace irnonia che è un importante valore aggiunto
Grazie mille spopola per i tuoi saggi consigli!
Terrò dunque stretta questa mia ironia che spesso aiuta anche a non prendere troppo sul serio questa vita drammatica ed imprevedibile ;)
Se io sono un "grande", allora tu sei un "TITANO" ahahaha, ti ringrazio come sempre per i tuoi immensi attestati di stima che mi riempiono sempre di gioia e orgoglio.
Un caro saluto spopola :)
Bravo Gio come sempre. Non ho niente da aggiungere. Del resto sai già che il film mi è piaciuto. Aspetto anch'io il nuovo film di Sheridan con trepidazione. Non sapevo invece della serie TV. Potrebbe essere interessante... Vabbè dai ti lascio allo studio delle lingue orientali altrimenti a parlar sempre di cinema non fai mica esami. :-D :-D
;-)
Ahahaha hai proprio ragione Roberto, a parlare troppo di Cinema si finisce col dimenticarsi degli esami (di ogni tipo) ahahhah ;D
Anch'io come te attendo con impazienza il prossimo film di Sheridan perché ha un soggetto molto interessante ambientato nello stato del Montana.
Sulla serie tv ti confesso che non l'ho vista neanch'io, ho voluto solamente citarla per completezza in modo da sottolineare la sua prolifica carriera da cineasta. Sicuramente la recupererò nel lungo termine, ma già aver visto tutti i film basta secondo me per comprendere a pieno la poetica del rinato regista.
Un caro saluto anche a te e a questo punto buon lavoro caro Roberto, mentre io mi rimboccherò le mani per gli esami imminenti ;D
gli sfondi nel cinema hanno sempre la loro importanza (almeno per me)….i treni per esempio….gli ospedali….e la neve (appunto)….non so partono sempre con mezzo punto in piu',metti che questo film rimane a tratti avvincente,allora capisco anche la tua' positivita' sul giudizio….che e' anche il mio,grazie.
Grazie a te Ezio per l’apprezzamento ;)
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