Regia di Taylor Sheridan vedi scheda film
A 120 anni di Cinema, un film ordinario può salvarsi solo se discute della sua stessa ordinarietà, se ci ragiona su o anche se semplicemente la illustra (con eventuale candore o complessità) nel contesto di un'operazione autocosciente. Wind River è potenzialmente questo, poiché per il protagonista l'indagine da affrontare è un continuo ricordo, una rievocazione incontrollata di memorie e rimpianti, a riconfermare che anche di fronte alla tragedia più grande tutto sembra ripetersi, nei meccanismi del dolore e della sofferenza. Questi meccanismi sono anche i meccanismi di un mondo marcio che permette il reiterarsi di queste tragedie. Ma come avviene spesso nel cinema di genere contemporaneo, in quel cinema che eventualmente ha capito come dovrebbe funzionare il ragionamento auto-analitico a proposito delle proprie modalità espressive, purtroppo l'intenzione in Wind River rimane narrativa, e il film non riesce mai a farsi catalogo di segni e di significanti che possano essere "significati" dallo spettatore. Il meccanismo della ripetizione e dell'accettazione del lutto del protagonista lo sentiamo solo raccontato, riusciamo solo ad ascoltarlo, ma certo non ne facciamo esperienza.
L'unico segno è quello delle scritte finali, che ricordano quello che magari fortunatamente ci si era scordati, cioè la scritta iniziale "Basato su eventi reali". Alla fine la sensazione familiare è quella di una noiosa familiarità, e non di una familiarità scomoda e paurosa - l'accettazione della sofferenza - ma quella ovvia e ridondante dell'indignazione.
Proprio alla luce di questa superficiale autocoscienza finisce per irritare il formato di un film dove tutto è al suo posto anche quando sembra non esserlo (dalla faccia inebetita di Jeremy Renner alle invasive musiche). Questo dovrebbe essere il reale motivo di indignazione: un Cinema che non si muove.
La regia premiata a Cannes è insulsa.
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