Regia di Taylor Sheridan vedi scheda film
CANNES 70 – UN CERTAIN REGARD – PREMIO PER LA MIGLIOR REGIA A TAYLOR SHERIDAN – CINEMA OLTRECONFINE - 35° TFF: FESTA MOBILE
E’ notte: ad alta quota il freddo gela ogni cosa vivente o esistente: una corsa affannosa, tra campi innevati, di una giovane donna in preda al panico per motivi che ancora non comprendiamo, trova la sua fine quando il corpo cede alla fatica e alle inaffrontabili condizioni metereologiche avverse alla vita.
Una mattina Cory Lambert, di professione cacciatore impiegato presso una riserva indiana ad alta quota per combattere il proliferare di predatori che compromettono l’equilibrio naturale del parco, popolato ancora dai nativi pellerossa, si imbatte, nel bel mezzo di una foresta di pini all’interno di una valle isolata da una recente nevicata, in un cadavere di una giovane donna. Denunciato l’accaduto, interviene come è prassi nelle ipotesi di omicidio, l’FBI nella persona di una giovane agente, giunta in tutta fretta e completamente non equipaggiata dal caldo di Las Vegas.
Ricevuti adeguati supporti in indumenti pesanti, atti a fronteggiare temperature che si spingono oltre i 30 gradi sotto lo zero, i due partono in motoslitta ad esaminare il cadavere: si tratta di una diciottenne di razza nativa, figlia di un conoscente del cacciatore: la morte viene attribuita all’assideramento, ma soprattutto allo scoppio dei polmoni a seguito del congelamento degli stessi a causa della temperatura: il corpo presenta inoltre segni di violenza sessuale e l’assideramento, si accerta, è stato anche causato da una fuga di quasi 10 km di percorso, a piedi scalzi, nella neve.
Pur non potendosi parlare di omicidio, è evidente a tutti che la ragazza è stata vittima di una aggressione. Il ritrovamento di un secondo cadavere, quello del fidanzato, alcuni giorni più tardi, sposta l’attenzione da un gruppo di tossici balordi, la cui reazione violenta, sedata a colpi d’arma da fuoco, ne sancisce inizialmente la colpevolezza, ad una squadra di polizia addetta a certe operazioni specializzate, come conseguenza finale di una notte di ebbrezza finita male tra colleghi invidiosi e incapaci di controllarsi.
La regia sapiente di Taylor Sheridan, eccelso sceneggiatore passato per l’occasione al ruolo di regista, oltre che autore del valido script, si aggroviglia sapientemente e con destrezza in un intrigo ad alta quota a cui successivamente verrà data, anzi illustrata, ogni debita spiegazione.
Il film, per stessa ammissione di Sheridan, che per l’occasione si è guadagnato l’ambito premio alla regia al Certain Regard di Cannes 2017, è la conclusione di una (magnifica) trilogia sul confine che ha visto l’autore impegnato come sceneggiatore prima e nientemeno che con “Sicario”, poi con “Hell or high water”: Wind River, pure lui come quest’ultimo, sorta di western tardivo e moderno che celebra la deriva dei sentimenti, lo sfascio familiare a seguito di disgrazie e dolori senza rimedio, non riesce forse a competere con nessuno dei due film precedenti, ma rappresenta a tutti gli effetti una felice, solida conclusione di questo trittico sulla solitudine e la desolazione da confine, sulla deriva umana dolorosa e senza scampo che rende l’uomo più aggressivo e temibile di ogni più spaventosa ed aggressiva belva delle foreste più impervie ed ostili di un Wyoming tanto attraente quanto inospitale.
Jeremy Renner ed Elisabeth Olsen, pur senza strafare, sono facce giuste al posto giusto nel primo caso, e deliberatamente fuori posto nel secondo: circostanza quest’ultima che riesce a tratteggiare i lineamenti di una figura di donna solo apparentemente fragile ed inadeguata già solo nell’abbigliamento con cui si presenta al suo primo appuntamento per raggiungere il luogo del delitto: un personaggio che impara presto ad adattarsi alla brutalità di un luogo per nulla proteso a fare sconti o concedere indulgenze a nessuno, ma pronto a dare giustizia a chi sa riconoscergli quel ruolo prioritario che lo rende sovrano incontrastato di quelle valli ancora quasi incontaminate
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