Regia di Manetti Bros. vedi scheda film
Con Ammore e malavita i Manetti Bros. giungono a un passo fondamentale del loro percorso autoriale, ovvero dare senso compiuto alla loro idea di cinema, finora veicolata da un'innegabile attitudine pop cui guardare con favore e simpatia.
Ma dall'iper-citazionismo "colto", sfrenato e manifesto, dalla derivatività ammantata di un certo gusto, dalla faciloneria registico-narrativa, in estrema sintesi, non si scappa.
Nemmeno questa volta. Giampaolo Morelli è un (Le …) samouraï, un (The …) killer che abita il film in abiti riciclati, camuffati, taroccati, un “guaglione” che tale non è, spirito ingessato senz'anima e soprattutto corpo e voce.
Proprio come il film: la sua, di “voce”, è muta malgrado il chiasso, l'accattivante caciaroneria, gli intermezzi musicali in odor di santità napoletana; come fosse la nuvoletta di fumo alzata dalla raffica di colpi (a salve) di un'arma automatica: dopo pochi istanti dalla visione si dirada, non ne rimane più nulla se non il rumoroso ricordo e la messinscena.
La sceneggiata.
Ecco, ovviamente dichiarata, con fierezza e (superficiale) irriverenza: tutto è sempre e solo messinscena (virata, come per il più riuscito lavoro precedente, in ottica partenopea), sapida sintassi “meta”, (de)costruzione e rielaborazione di luoghi e fondamenti filmici; con il riconoscibile marchio di fabbrica che è ormai simulacro corroso di una cifra distintiva che non esiste.
Un gioc(hin)o che dura (da) troppo non diverte più, le magagne e le scorciatoie non si giustificano più.
La scena del funerale che dà le danze al flashback disinnesca il racconto di ogni tensione, imperdonabile nelle fasi che si vorrebbero parentesi cariche di “dramma” e “azione”; l'espediente del sosia, mutuato da un Bond espressamente citato (ehm …), è roba da rigattieri poco furbi (un po' di ingegno e ce la si poteva fare, su), oltre che emblema di uno script approssimativo, lacunoso; l'ammore tanto sbandierato è un plastico eretto su basi nostalgiche e riduzioni da soap (latitano alchimia di coppia e, banalmente, tempo e tempi); il twist finale – altra trovata vista e stravista e rigurgitata da gole che ne hanno assaggiate, di cose che noi umani ecc. –, fa cascare i globi oculari (di vetro).
L'action, poi, è – come da consunto copione – un susseguirsi atono e innocuo di ralenty stancanti e coreografie grossolane (l'ambito televisivo da fiction nazionalpopolare è dietro l'angolo), un mash-up ammiccante e sgraziato di suspence immaginata, immaginaria. La sequenza con Morelli ammanettato alla Rossi che ammazza uno a uno gli stupidissimi nemici è significativo della sciatta rappresentazione scenica.
Certo, ci sono diversi momenti azzeccati, “carini” (alcune battute – molte delle quali però, “facili”, in bocca a Buccirosso –, vanno a segno; la Donna Maria disegnata felicemente sopra le righe dalla Gerini è uno spasso), gli attori si prestano con evidente complicità (Raiz possiede carisma e faccia/modi da duro; Serena Rossi, pur penalizzata da una inqualificabile capigliatura ricciuta, è presenza radiosa), inoltre l'incipit che ironizza sul “fascino del crimine” che opere come Gomorra possono esercitare, è uno spunto intelligente e anche divertente; ma si rimane appunto in superficie, tra note che suonano sempre gli stessi accordi e riferimenti, senza che mai ci sia una composizione matura, definita, compiuta.
Infine, il lato “musical”: non a caso, tra i tanti brani e momenti che sono/vorrebbero essere un connubio tra la gioiosità cromatica di Bollywood, la precisione infallibile dell'industria hollywoodiana e la spontaneità e vitalità napoletane, l'esecuzione migliore – l'unica degna di menzione, invero – è una cover (di What a feeling).
L'abilità dei Manetti Bros. di saper maneggiare il genere e i generi si rivela pertanto essere generica vocazione. Propensione all'arte del rifacimento e allo sfoggio di memorabilia. Propulsione per/al gioco (metacinematografico), come i modellini di auto detenuti dal boss del pesce, tra l'Aston Martin di Bond, la DeLorean di Doc e McFly, e la Ecto-1 dei Ghostbusters (tra gli altri).
La dichiarazione d'amore finale – diegetica (l'ammore che ha schivato pallottole, scalcagnate armate malavitose e agguati neomelodici) ed extra (quello per la città) – ha la consistenza di uno stacco musicale da talent, il peso artistico di un quadretto-sfondo per desktop, la funzione di mera introduzione ai titoli di coda.
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