Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Amelio, con la misura dell’antiretorica che sempre lo contraddistingue, eccezionale in tempi tanto urlati e di cinema tanto autocompiaciuto, ha preso un pezzo della storia d’Italia, gli ultimi sessant’anni, e ci ha detto con poche parole e senza enfatici proclami “ Signori, guardate di cosa siamo capaci ”.
Filmati d’epoca scorrono sui titoli di apertura, 1939, Mussolini entra trionfante, l’Albania è italiana.
Cinquant’anni dopo. Finito anche il regime comunista, Hoxha eliminato, caduti finalmente tutti i muri, cosa rimane da fare ad un popolo lungo la meravigliosa strada verso la felicità? Indossare un buon paio di scarpe che produrrà la ditta XY, capitali esteri ma con manodopera albanese, mediatori finanziari albanesi, e, soprattutto, presidente albanese.
E dove vanno a cercarlo Placido/Fiore e Lo Verso/Gino, azzimati e carognoni quanto basta (soprattutto il primo) per sembrare perfettamente credibili?
In un ospizio, che però non somiglia alle comode e tranquillizzanti case per i nostri dolci e cari vecchietti, immerse nel verde delle nostre città.
No, questo è poco meno che un girone infernale, quasi quasi Gino ci lascia la pelle, stretto com’è da una morsa umana di miserabili che gli si stringono addosso (una citazione da Improvvisamente l’estate scorsa era d’obbligo).
Trovato il presidente, Fiore scappa in patria a tessere le giuste tele e fare i giusti incontri, Gino deve proseguire in loco e, soprattutto, compiere la missione a cui è preposto: riportare un po’ in qua, rendendolo presentabile, quel pezzo di fuliggine semiautistico preso all’ospizio, che dovrà metter firme sulle pratiche di questa nascente joint venture calzaturiera Italia/Albania.
Purtroppo le cose qui da noi si complicano, qualche mazzetta forse non arriva al posto giusto, fatto sta che Lo Verso, sempre più disorientato, dovrà cavarsi d’impiccio, e neanche da solo, visto che quello strano presidente albanese, che ora biascica qualche parola con accento siciliano, non è biodegradabile. Anzi, sembra addirittura umano, ora che si capisce un po’ di più, ma è fermo a cinquant’anni fa, quando fu fatto prigioniero dai comunisti e sbattuto in cella, lui che stava lì, soldato, senza saper bene perché, e a Catania stava pure per nascergli il figlioletto che, secondo lui, ora ha quattro anni e chissà se lo riconoscerà!
Amelio, con la misura dell’antiretorica che sempre lo contraddistingue, eccezionale in tempi tanto urlati e di cinema tanto autocompiaciuto, ha preso un pezzo della storia d’Italia, gli ultimi sessant’anni, e ci ha detto con poche parole e senza enfatici proclami “Signori, guardate di cosa siamo capaci”.
Il viaggio di Gino abbandonato a sé stesso, in cerca di un sistema per tornare indietro fra gli orrori di un mondo privato della sua identità, svuotato della sua cultura millenaria, dato in pasto ai miti di un falso benessere, un paese che riempie barconi di clandestini diretti verso il paese di Bengodi, diventa allora un viaggio di formazione.
Quando riuscirà a salire su quella barca di folli che va verso Lamerica, nuova sponda non al di là dell’oceano, stavolta, ma solo a cento miglia marine fino a Otranto e dintorni, avrà perso quell’aria strafottente e sicura di sé che l’ignoranza gli aveva cucito addosso.
Ora ha visto, ne ha vissuto per un po’ le durezze, forse non ha capito bene tutto, ma ci penserà, mentre la ripresa dall’ alto sfuma sulla scia di schiuma e la barca va.
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