Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Il posto fisso è il "mito" che ha accompagnato generazione di Italiani al lavoro, in particolar modo quelle che uscivano devastate dalla seconda guerra mondiale. Generazioni che desideravano lasciarsi alle spalle le tribolazioni del conflitto con un mestiere che non garantisse il mero sostentamento bensì quel senso di sicurezza e stabilità venuto a mancare negli anni '40. In un paese ferito come il nostro, in cui la ricostruzione era il primo obiettivo, il posto fisso era una benedizione, un vanto, un motivo per risollevare la testa e cominciare a vivere il tempo di pace con ottimismo. Il mito permase nei decenni successivi accrescendo il proprio valore taumaturgico negli anni bollenti delle crisi petrolifere ed economiche assumendo, in alcune situazioni, persino una connotazione negativa per quella fetta di raccomandati messi ad occupare una scrivania senza avere doti per meritarla.
Nel 1961 quando a Venezia venne presentato "Il posto" di Ermanno Olmi gli anni del conflitto erano ancora vicini ed altre e minacciose nubi di guerra si erano addensate rischiando di far svanire quel senso di stabilità che molti anelavano mantenere. La guerra fredda era in atto e le potenze, una volta alleate, avevano mostrato i muscoli in Corea e durante la rivolta di Budapest. Mentre gli americani fallivano lo sbarco nella Baia dei Porci, innescando un susseguirsi di tensioni internazionali, gli italiani, che speravano di aver chiuso con la guerra nel 1954 una volta spartita l'Istria con gli jugoslavi, credevano solamente nel lavoro duraturo per uscire dalla miseria o migliorare il proprio tenore di vita.
Queste considerazioni sono facilmente rintracciabili nelle prime sequenze del secondo lungometraggio del maestro bergamasco che tra luci soffuse e delicate osserva la dignità della povertà in un interno dell'interland milanese. Domenico, il figlio più grande ha il letto addossato ad una parete della cucina in un'abitazione piccola e modesta in cui evidentemente non c'è una camera da letto a suo uso e consumo. I genitori sono impegnati a centellinare le uscite per far quadrare il bilancio famigliare a cui i due figli non apportano nulla di materialmente concreto. Il concorso presso una grande azienda milanese è, perciò, motivo di eccitazione e di mille raccomandazioni da parte dei genitori che vorrebbero sistemato il più grande dei due figli. Quel posto sarebbe una manna dal cielo oltreché motivo di grande orgoglio.
Ermanno Olmi ci mise del suo nella figura del giovane Domenico, studente indolente che parte in treno da Meda alla volta del capoluogo in un itinerario destinato a divenire routine. Lo stesso regista fece, almeno idealmente, lo stesso percorso dalla provincia verso Milano trovandosi un lavoro presso EdisonVolta dove già lavorava la madre. Un percorso che accomunò moltissimi italiani che si trasferirono verso le città in cerca di lavoro abbandonando di conseguenza la campagna e la civiltà contadina a cui appartenevano da sempre.
Approdato in città, seguendo le orme del giovane Domenico, Olmi osserva il frastuono del progresso e i movimenti degli abitanti e dei lavoratori che sembrano elettroni eccitati intorno al nucleo della città.
In un'ipotetica seconda parte assistiamo alle operazioni di reclutamento, i test fisici e intellettuali a cui i candidati vengono sottoposti e che oggi probabilmente appaiono piuttosto insoliti per non dire ridicoli. La mdp si insinua tra i cantieri di una città in piena evoluzione urbanistica, tra gli scavi della metro in piazza Santa Babila e con inquadrature reverenziali si appropria del silenzio dei giganteschi atri e delle strutture avveniristiche di palazzi grandi abbastanza da lasciare senza fiato gli astanti. Olmi ritrae lo stupore della provincia di fronte alla grande città ma dietro alla meraviglia di Domenico c'è anche un ragazzo non così intimidito dalle novità e dal progresso che gusta la prelibatezza di un espresso, pranza in una latteria e fa il filo alla giovane Magalí, ragazza con cui ha condiviso il reclutamento.
La terza ed ultima parte abbandona lo stupore iniziale nei corridoi dall'azienda che ha assunto Domenico come fattorino. Dentro le stanze non c'è nulla che possa recare meraviglia. Chiamato ad esercitare mansioni prive di significato, come una sorta di personaggio kafkiano, Domenico è preso dalla noia. Il lavoro, quello fisico e produttivo della campagna, diventa un patetico processo burocratico. Olmi scalfisce la superficie delle cattedre perfettamente allineate nell'ufficio contabile per osservare l'intimità familiare degli impiegati. La loro grigia esistenza, in una città che improvvisamente appare meno incantevole, sbriciola il mito del "posto fisso" in una metamorfosi che si completa nel momento che dovrebbe esaltarne i pregi sociali, ossia la promozione del giovane da fattorino a contabile. Domenico non riesce a sottrarsi alla "spartizione delle vesti" e finisce in un tavolo poco illuminato che segnerà la sua vita, avvinghiato dall'assenza di umanità e dal disinteresse di chi spartisce con lui la stanza.
Ermanno Olmi utilizzò gli ambienti di EdisonVolta per girare questa pellicola che affronta una tematica che non era certo sconosciuta al suo background formativo. Egli dedicò il suo tempo all'organizzazione delle attività ricreative per conto dell'azienda (ne è un esempio la particolareggiata sequenza dedicata alla festa di fine anno) ed ebbe modo di incontrare un'umanità varia alle prese con i medesimi ingranaggi del lavoro industriale. Sicuramente il suo lavoro, che sfociò nella fondazione della divisione cinema, non era altrettanto alienante e come egli stesso ebbe modo di affarmare più volte si senti sempre all'interno di una "grande famiglia" nei primi anni di lavoro presso il colosso dell'energia. Questo non gli impedì di riflettere, con distacco e con malinconia, sul ruolo delle persone in un azienda in cui il lavoratore rappresentava un elemento facilmente sostituibile. Per questa sua capacità di analisi del contesto lavorativo Olmi fu capace di consegnare ai posteri un'opera disincantata che a sessant'anni dalla sua uscita rimane di grande attualità, specie per quelle grandi e alienanti realtà industriali in cui il lavoratore rappresenta una piccola pedina nello scacchiere produttivo oppure un soggetto svuotato dall'insensatezza di un'ottusa burocrazia.
Bellissimo ritratto del paese e malinconica rappresentazione della giovinezza perduta.
RaiPlay
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