Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Voto: 7, 333 su 10 Prosegue nella tradizione del neorealismo e scatta una fotografia accurata del mondo del lavoro, con occhio critico di fronte a dinamiche alienanti del mito del posto fisso. rivendica la sua originalità nell'attenzione affettuosa e intimista ai piccoli gesti e agli sguardi intimoriti dei ragazzi.
Lo sguardo assonnato di Cantoni Domenico si sveglia all'alba nel suo letto sistemato nella cucina nel piccolo appartamento che condivide con genitori e fratello nelle case di ringhiera nel borgo di Meda in Brianza, zona allora ancora rurale la cui popolazione giovanile gravita intorno a Milano per il lavoro (“Per la gente che vive nelle cittadine e nei paesi della Lombardia, intorno alla grande città, Milano significa soprattutto il posto di lavoro“ recita la frase sovrimpressa iniziale.) E anche Domenico si è svegliato per andare a Milano a sostenere un esame per un posto lavoro in grande azienda meneghina, spinto dalle speranze della famiglia verso la prospettiva di sistemarsi per tutta la vita, trovare il posto fisso, da tutti ambito nell'Italia che si affacciava al boom economico. L'esame consiste in un problema matematico tutto sommato semplice, in un ridicolo test fisico e in un colloquio psicoattitudinale (“psicotecnico” si diceva allora) con domande astruse. Per Domenico il concorso è anche occasione di incontro e infatuazione per un'altra giovane candidata, che si fa chiamare alla francese Magalì ma in realtà all'anagrafe è Antonietta, cittadina meneghina più scafata di lui.
Lo sguardo intimorito del suo giovane protagonista, la sua impacciata timidezza è accarezzata con tenerezza dallo sguardo cinematografico di Olmi, che non nasconde il suo evidente affetto per i suoi personaggi semplici, di classe popolare, come anche l'anziana impiegata protettiva o il collega fattorino più anziano dispensatore di perle di saggezza (“a questo mondo bisogna sempre fidarsi di tutti, meno di quelli che hanno due buchi nel naso”). Il Posto è un'opera che indubbiamente si ricollega alla tradizione del neorealismo , ma rivendica la sua originalità soprattutto nell'attenzione intimista ai piccoli gesti e ai momenti solo apparentemente banali della quotidianità, come quando Domenico canta “Piove” sul treno che lo riporta a Meda, il soffermarsi sugli sguardi e i sorrisi dei ragazzi , sui discorsi sussurrati in cui spesso prevale l'imbarazzo e l'insicurezza dell'età e della condizione sociale.
Il ragazzo viene assunto, ma inizialmente come semplice fattorino, altra sede e altro turno di lavoro rispetto a Antonietta, assunta come dattilografa, che ha pertanto difficoltà a rincontrare. Fino a quando la ragazza nei corridoi gli parla di un veglione aziendale di Capodanno a cui forse andrà se la madre darà il suo permesso. Domenico, sgattaiolato di nascosto dal padre, all'inizio trova la sala della festa desolatamente semi-deserta, poi arriva la baraonda dei colleghi festaioli e dovrà vincere la sua timidezza facendosi trascinare balli di coppia e di gruppo. Tuttavia Magalì non comparirà. Poco dopo la morte di un dipendente libera un posto nella sala degli impiegati, anche se le rimostranze dei colleghi con maggiore anzianità lo faranno spostare nell'ultima scrivania più scomoda, lontana dalle finestre e illuminata da una fastidiosa lampada.
Olmi chiude il film su una nota amara per Domenico, con un altro primo piano sul suo sguardo, stavolta inquieto sull'avvio di una vita lavorativa che si preannuncia abbastanza alienante e senza neppure la prospettiva sentimentale con la ragazza che gli piace.
L'autore prosegue nella tradizione del neorealismo e scatta una fotografia accurata del mondo del lavoro nei primi Anni Sessanta, con occhio critico di fronte a certe dinamiche disumanizzanti, avvertendo come il mito del posto fisso quale massimo obiettivo dell'esistenza rischia di condannare un giovane ad un'esistenza monotona e persino squallida, riducendo la persona alla sola dimensione occupazionale fino a quando muore e tutto finisce con un breve inventario degli oggetti che ha lasciato sulla scrivania, da sgombrare in fretta per il sostituto.
La versione restaurata in 4 K della Cineteca di Bologna in collaborazione con Titanus restituisce la splendida nitidezza del bianco e nero di un'opera da recuperare e interessante anche per la rappresentazione della Milano di sei decenni fa: nel film si vede piazza San Babila sventrata dagli scavi della metropolitana allora in via di costruzione.
Voto: 7, 333 su 10
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