Regia di Mario Siciliano vedi scheda film
Uno dei più bei western italiani di sempre. Prima di diventare il famoso “angelo della morte” Sartana, Gianni Garko era stato un cattivo di razza in alcune preziose pellicole epocali. Erano quelle della coppia Alberto Cardone/Mario Siciliano. Il primo regista e il secondo produttore hanno partorito insieme due titoli da brivido: “7 Dollari sul Rosso” con Steffen contro Sancho e Miali; “1.000 Dollari sul Nero” con Steffen contro Garko nei panni di un tale Sartana Liston. Sarà poi Gianfranco Parolini a reinventarsi il personaggio di Sartana in “Se Incontri Sartana Prega per la Tua Morte”. Il film è del 1968, ma precedente con ogni probabilità (fonte Imdb) al film di Siciliano. Fatto sta che i due ex-collaboratori per la prima volta lavorano separatamente. Cardone firmerà “20.000 Dollari sul 7”, e chiuderà così la sua personale trilogia della “puntata”, mentre Siciliano confezionerà questo grande capolavoro (la versione integrale è di 119 minuti!) con un cast straordinario ed una firma di peso come Ernesto Gastaldi.
La storia rimaneggia quella conosciuta di Pat Garrett e Billy the Kid, ma vi apporta novità narrative che diventano poi elementi di differenza tali da spingere il film su altre corde. Certo è che l’impatto emotivo è quello suscitato dallo scontro di due ex-amici destinati ad ammazzarsi, come nella leggendaria storia del Kid con lo sceriffo Pat (non ci sono prove che i due fossero grandi amici, se non appena dei conoscenti). Prima grande differenza al canovaccio kidiano è l’intrusione di un terzo personaggio per nulla di contorno, il cui rapporto con i due protagonisti è quasi una mise en abyme del loro conflitto. Gianni Garko è qui in uno dei suoi ruoli migliori, molto probabilmente il migliore di tutta la sua spagocarriera. É Brian, un sudista che torna dalla guerra ed è vittima di un branco di nordisti che gli violentano e uccidono la moglie. Salvato da Daniel, un grandissimo Ivan Rassimov, i due diventano più che amici ed insieme salvano da un gruppo di fuorilegge il fratello di quest’ultimo, Robert, ovvero Roberto Miali. Strada facendo il terzetto si fa sempre più intimo e famigliare, ma le scelte estreme e radicali che farà Brian disturbano i due fratelli che non sanno più come prendere il loro amico. Brian è ormai offuscato da una follia e da una isteria che lo assalgono lentamente, ma con forza e pericolosità. I due fratelli si separano da lui a malincuore, per ritrovarsi un giorno su due barricate diverse: Daniel e suo fratello Robert sono due sceriffi, Brian diventa uno spietato bandito sanguinario.
“I Vigliacchi Non Pregano” è una tragedia. Di questa non avrà magari l’unione di tempo e di luogo, ma la messa in scena di Siciliano è molto teatrale, oscura, gotica, quasi ad indicare un terzo luogo che non è né il grande schermo né il teatro, bensì un’anfratto dell’anima, probabilmente la caverna platonica (e di caverne il film ne ha due importantissime per la viceda), dove le ombre dei personaggi si fondono con l’oscurità del destino e delle trame dei sentimenti, anch’essi enigmatici e non indagabili. C’è chi accenna al Maldoror del Conte di Lautrémont per accostare la figura altissima e autorevole del personaggio di Gianni Garko, ma anche l’Amleto di Shakespeare è un referente indubbio della follia e della introspezione tragica del bandito. La sua violenza raptica, incontrollata ed esplosiva nasce da un trauma, ma davanti alle possibilità di guarire e di scegliere una vita diversa da quella del fuorilegge, Garko persevera satanicamente sui passi del delitto e della delinquenza. Il suo approssimarsi luciferino ad una rappresentazione fisica e viscerale del Male, inteso come agente incontrollato e incontrollabile del disordine, dell’istinto e della libido, ha le cadenze scespiriane di un prescelto, un eletto, che cammina al fianco dei morti e che conosce il segreto della Verità. Offuscato dalla sua psicosi omicida, il personaggio di Garko sembrerebbe abbandonare ogni tentativo di definizione dell’attrazione e accondiscendenza dell’uomo alla malvagità. In realtà, la sua malattia gli permette di scegliere ciò che altri non sceglierebbero. Questo porta il personaggio del bandito Brian su un livello letterario che lo ingigantisce sul grande schermo come il figlio di celebri eroi tragici moderni troppo piccoli per combattere la propria natura. Uomo autodistruttivo, teso all’istintualità, con raptus improvvisi di una ferocia quasi epilettica con cui deflagrare codici e regole del genere (mai visti personaggi così squilibrati in un western), e soprattutto con cui mortificare tutto l’immaginario precedente e renderlo simile ad un cimitero a cielo aperto, senza croci e senza tombe. Uno dei titoli di lavorazione del fim di Siciliano era “Ho Visto un Teschio e una Pistola”. E già il teschio, oltre a richiamare tutta un’iconografia mortuaria, funebre e cimiteriale, richiama senza dubbi il teschio amletico con cui l’eroe tragico scespiriano si confronta. Nel film invece, una scena che imiti quella celebre di “Amleto”, non c’è. In compenso a rappresentare il nuovo titolo c’è la scena in cui i tre compañeros entrano in una cappella e vengono invitati da un prete a pregare. Invece di pregare, Garko uscirà dalla cappella, allacciando così al suo personaggio il “vigliacco” del titolo. Questo spinge le interpretazioni a non poter, in ultima analisi, rivalutare il personaggio di Brian. Ma la bravura di Gianni Garko, la maschera che l’attore italo-croato (nato a Zara quando questa era ancora enclave italiana) crea ad hoc per dar vita al suo folle uomo della tragedia, riesce a farci apparire il suo fuorilegge sanguinario come tenera vittima di una distorsione delle regole e delle civilità a cui l’uomo incorre quando il destino, o semplicemente le scelte e le fortune/sfortune della vita e del caso, lo fanno cadere rovinosamente da cavallo. Ivan Rassimov, dopotutto, dissimile dal Garko sanguinario per natura del suo personaggio, è comunque lacerato dal dolore per essere lui l’uomo che dovrà un giorno ucciderlo. In questa sua sofferenza troviamo la conferma della buonafede, o comunque e preferibilmente della disgrazia titanica del bandito di Garko. Garko che è sì il cattivo del film, ma che trascende clamorosamente il monolitico ruolo del villain per assumere la statura epica di un personaggio tragico.
A completare il cast un reparto di attori tutti in stato di grazia. Se i protagonisti assoluti del film, sono baciati dal dio della genialità che ha loro permesso una performance incredibile, gli altri volti noti degli spaghetti-western che appaiono nel film di Siciliano hanno ugualmente l’ispirazione giusta per arricchire il già ottimo lavoro del regista con gli attori. Abbiamo, in ordine di apparizione, una serie di cattivi con cui soprattutto Gianni Garko intavolerà duelli e scontri all’ultimo sangue: Lorenzo Robledo, Luis Induni, Frank Braña e gli attori che interpretano Art Black e il vecchio padre. In più, di contorno, in ruoli sempre tratteggiati con cura nonostante siano secondari, abbiamo il grande Luciano Pigozzi nei panni di un esaltato religioso, anche se meno carognesco di quello che poteva essere, ingentilito com’è dalla mano di Dio; abbiamo Luis Barboo, Giovanni Ivan Scratuglia ed Elisa Montés. Nel ruolo del comandante nordista che controlla l’operato di Rassimov quando diventa sceriffo, mi pare ci sia Guy Madison, ma non trovando conferma né di lui, né di Gino Pernice come probabile Felix Perkins, credo si tratti di due attori a loro molto simili. Ciò non toglie che il reparto è pieno di grandi volti, e tutti in perfetta sintonia con il testo e il personaggio a cui sono stati chiamati.
A fare il paio con la presenza di grandi attori spagowestern, è l’indiscutibile regia di Mario Siciliano. Non solo la messa in scena suggestiva e la direzione artistica sono azzeccate e funzionali, ma il linguaggio adottato nelle riprese è accattivante e riuscitissimo. Abbiamo per esempio, la mdp che senza stacchi avvolge i volti dei personaggi in bellissimi piani sequenza; così come, sempre scavalcando il montaggio, abbiamo scene d’azione, sparatorie e altro, che ci vengono restituite in un’unica inquadratura grazie a zoommate, spostamenti rapidissimi della mdp e perfetti giochi di coreografia della scena. Anche la sceneggiatura di Gastaldi favorisce un testo pregno di idee e spunti interessanti. Non solo i personaggi, dal protagonista all’ultimo dei generici, sono tutti pennellati con rigore e profondità, ma le situazioni e i topoi in cui essi stessi si vengono a trovare sono già scene madri, pagine di un’antologia tragica stupenda, che sfilano fluide una dopo l’altra (a parte qualche raccordo improbabile, dovuto anche ai tagli incoscenti sul metraggio). Fin dall’inizio assistiamo a idee visive non comuni, e per tutto l’arco del film ci sono scene di grande inventiva e di grande resa cinematografica. Parlo del duello tra Gianni Garko e il sadomaso Art Black, che si sfidano al buio di una stalla cercandosi solo con l’aiuto dei loro sigari accessi; oppure del duello a cavallo tra Garko e il mitico Luis Induni, o quello alla roulette russa con Rassimov contro un figlio dei Perkins (il Felix che mi sembrava Gino Pernice); ma anche e soprattutto il confronto e poi scontro tra Garko e Roberto Miali nella cueva dove il bandito si nasconde, la lunga scazzottata tra Garko e Rassimov, la fuga nel deserto in bellissima ripresa di Garko e della Montés, e infine l’oscuro duello all’interno della miniera tra i due ex-amici, tra loro opposti e attratti allo stesso tempo. Dico questo perchè come scrivevo più indietro, i rapporti tra i tre personaggi sono molto particolari e per nulla accennati. Il buono e integerrimo Rassimov vuol davvero un gran bene al bandito di Gianni Garko, anche perchè in lui rivede l’avventuriero che non è. Stesso discorso vale per Garko che in Rassimov vede tutto il bene che non può più cercare e sperare di essere. Tra i due, il fratello minore di Rassimov, il bravo Roberto Miali, già apprezzato come figlio tragico nell’edipico “7 Dollari sul Rosso”. Questi è attratto sia dal fratello che dal bandito, per le stesse ragioni che attragono l’uno verso l’altro i due protagonisti. Ecco che Miali è una sorta di sintesi delle due opposte tensioni. In più nell’attrazione tutta virile tra i tre uomini, ci può essere una segreta affezione sessuale dovuta ad un irrisolto con la propria virilità. Rassimov non si sente un uomo perchè non corre rischi e avventure. Garko non si sente uomo perchè vorrebbe essere diverso, e cerca di dimostrarselo con l’amore per una donna che in realtà non ama, o che ama solo alla sua isterica maniera. Miali non si sente “ancora” uomo perchè non s’è ancora svezzato dalla fallica presenza del fratello e da quella libidinosa del bandito, da sempre personaggio scatenante la fantasia e l’attrazione adolescenti.
Nonostante le tante parole che si possono sprecare per definire i rapporti, le traiettorie, le tensioni dei personaggi, e la profondità letteraria de “I Vigliacchi Non Pregano”, il film di Mario Siciliano è sicuramente uno dei più grandi capolavori dello spaghetti-western più cupo, oscuro, che non si relaziona all’umorismo cinico di Leone né alle declinazioni brillanti post-Trinità, ma va piuttosto ad infoltire quel filone gotico tipico della nostra produzione italiana. Non è nemmeno un semplice pezzo di artigianato, con tutto al posto giusto, alla Fidani. É invece un film complesso, arcano, profondo. Così profondo che per cercarne un’interpretazione unica finisci per trovarti avvolto nel buio di un pozzo senza fine. O meglio, nel cono d’ombra di una buia miniera senza fine.
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