Regia di Giuseppe De Santis vedi scheda film
Nell'intervista resa a Curzio Maltese, pubblicata su Repubblica il 15 marzo 2010, nella quale tenta l'apologia di Amici Miei - Come tutto ebbe inizio, Christian De Sica sostanzialmente sostiene una sorta di supremazia del cinema comico d'oggi sul cinema serio, quello dei - come li definisce lui - «cineasti laureati». De Sica ritiene che solo i comici stanno ancora fra la gente, «prendono i mezzi pubblici, stanno al bar, parlano con le persone normali, ascoltano». Non so quanto sia davvero così, ma il figlio del grande Vittorio pensa anche che l'errore degli artefici della commedia all'italiana fu quello di rinchiudersi nelle ville ad organizzare serate tra amici, senza più vedere nessuno che non facesse parte "del giro". E conclude la propria riflessione, raccontando che «un giorno Luchino Visconti disse a mio padre: vedi, ormai non andiamo più in giro, quindi non potremo fare mai più La terra trema o Ladri di biciclette. Ci tocca fare Morte a Venezia e Il giardino dei Finzi Contini. Cose bellissime, per carità. Ma la vita sta altrove». Tutto questo per dire che il discorso di Christian De Sica è sicuramente condivisibile, anche se parte da una premessa non scontata come l'attore vorrebbe (farci) pensare. E cioè che la gente si riconoscesse davvero nei capolavori del neorealismo e che coloro che prendono i mezzi pubblici e frequentano i bar non aspettassero altro che entrare in sala per vedere i nuovi capolavori di Rossellini, De Sica (senior) e Visconti. Nel volume Il cinema neorealista italiano. Da "Roma città aperta" a "I soliti ignoti", Gian Piero Brunetta sostiene infatti che, a differenza di Visconti, Giuseppe De Santis puntasse a costruire un cinema per il popolo, per coinvolgere ed appassionare, con trame anche avventurose (in parte mutuate dal cinema americano, dico io) «quelle stesse platee popolari che nel frattempo disertavano le proiezioni di Germania anno zero e Umberto D., per accorrere in folla ad assistere ai film di Matarazzo e di Carmine Gallone». In questo senso, De Santis imposta, già con Caccia tragica, un cinema figurativamente influenzato dall'esperienza eisensteiniana (e, del resto, lo sguardo del regista di Fondi era direzionato verso l'URSS anche politicamente), narrativamente parente del cinema americano (per buttare là due nomi, direi Walsh e Huston), ma che non prescindeva dalla realtà sociale e politica dell'Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale. Interessantissima, in quest'ottica, l'ambientazione in una pianura padana sconvolta dallo scontro tra i vecchi proprietari terrieri e le cooperative di contadini, che rifiutavano l'antica condizione di braccianti e mezzadri, per mettere il sudore della fronte al servizio delle proprie famiglie, anziché di un padrone dalle belle braghe bianche. Ed a testimoniare il recente passaggio della guerra, restano le mine sepolte nei campi, che impongono agli agricoltori un lavoro supplementare, preliminare perfino al dissodamento di quella terra che nel finale viene lanciata al reduce, che aveva pensato di fare soldi senza il duro lavoro delle braccia, e si era inconsapevolmente messo al servizio dei proprietari terrieri.
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