Regia di Giuseppe De Santis vedi scheda film
Le virtù di una trama,in special modo se affrontano l’arduo esame del racconto di genere,spesso si chiariscono con la visione della prima sequenza.
E’ quello che succede con “Caccia tragica” :le immagini che attraggono subito sono quelle che si estendono dal bacio di due freschi sposi ad un paesaggio inconsueto come cornice.
Ma questo non è un tradimento,più probabilmente è la traduzione fedele del senso di riscatto,patteggiato con un infaticabile spirito di sopravvivenza,di tutti i figli della Resistenza e delle loro solo apparentemente ingenue speranze.
C’è qualcosa di coreografico nell’allargarsi dell’inquadratura,e questa stessa agilità non sarà tralasciata per un solo attimo per tutto il film.
E’ vero anche che in poco meno di 90 minuti De Santis condensa quello che molti colleghi,suoi contemporanei come pure quelli successivi,avrebbero stiracchiato per una buona mezz’ora in eccesso.
Ciò che colpisce,e che resiste per tutta la visione è la struttura coltamene popolare dell’intreccio,e la scrittura cinematografica che si svincola immediatamente da ogni sospetto di teatralità( e di narrativa di serie B).
La corposa fisicità delle immagini,il dialogo forse enfatico ma profondamente plausibile tra i personaggi,la reale forza delle intenzioni:la mobilità senza sosta e senza esitazioni della cinepresa bracca in ogni angolo le storie e i pentimenti e le false gloria di chi le porta,la folla che non è inferocita ma sa gridare il proprio trionfo e la rabbia,come cavallette umane in grado raccogliere forze e armi.
Le scene memorabili,avvolte da una fotografia ci crudo calore,sono diverse e anche compiaciute,tenute insieme da un desiderio quasi brutale di tessere una storia di quelle scene che presto saranno memoria e coscienza.
Infatti,sia come cinema di genere che si ispira alla tradizione americana ma lasciando cadere spesso il senso del romanzo per privilegiare il cinema stesso come documento più sensuale,sia come opera finalmente autoriale,”Caccia tragica” ha il valore di una oralità che sente il bisogno della decisiva trascrizione visiva.
E la facce rigorosamente umane e attuali dei suoi attori,più sorprendenti di quelle di qualsiasi divo,
ce lo ricordano in ogni momento,fino all’ultima delle comparse.
Da far rivedere non solo ai registi italiani,definitivamente insofferenti al cinema di genere(o del tutto incapaci di realizzarlo),ma anche a quelli americani che hanno perso il senso della misura,della narrazione e della tradizione.
Praticamente perfetta,anche nei sopracuti talvolta grevi:ubriaca di passione negativa e rapace come un'aquila senza possibilità di gioia
Torvo ed efficace nello straziato convicimento di aver perso tutto e di essere autorizzato a vincere con una violenza ancora più grande di quella subita:De Santis,che esprime e non condanna,gli regala la fine del film che sa tanto di speranza ancora vivibile.
Colomba di nuda bellezza davanti alla quale ogni violenza è un delitto anche solo nel momento in cui viene pensato
L'umanità non premeditata è tutta nel suo volto distrattamente nobile,e anche questa volta dimostra come si sia trovato più a suo agio con registi che hanno reinventato il genere piuttosto che con gli "Autori" che lo irrigidivano nel ruolo di icona;il suo spoglio monologo in difesa di Checchi è uno dei momenti(tanti) preziosi del film
Come è capitato ad Alberto Lattuada,De Santis è uno di quei registi di cui si è preferito perdere la lezione:ma le sue immagini,la brutale destrezza della matassa narrativa,la direzione che accudisce ogni singolo personaggio senza un accenno di derisione,permettono nei suoi confronti,e soprattutto per questo stringato poliziesco degli umiliati e offesi,un senso di gratitudine che si ha solo per un documento importante.
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