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La caccia

Regia di Arthur Penn vedi scheda film

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La recensione su La caccia

di michemar
9 stelle

Un film immeritatamente dimenticato, perché come questo non se ne fanno che rarissimamente: rivederlo mi ha letteralmente entusiasmato.

Come una parabola geometrica il film inizia in una cittadina afosa e sonnolenta del Texas, raggiunge l’apice in scorribande alcoliche della meschina, razzista e ipocrita popolazione borghese per precipitare con un tonfo macabro alla fine nella tragedia cruenta e giustizialista a buon mercato del sabato notte, momento settimanale e rituale dello sfogo popolare. C’è tutto del cinema classico americano degli anni ’60: la gente si arricchisce con l’oro nero che sgorga dal sottosuolo, le banche aumentano gli affari, gli sfruttati neri sono confinati nelle periferie e devono tenersi alla larga dalle ville dei bianchi, i benestanti che si annoiano nella loro monotona vita: Tarl è un’ anonima cittadina del Texas dove primeggia Val Rogers, un miliardario che tra l’altro gestisce la banca del posto, i cui impiegati sono viscidi servitori del boss, ma che alle sue spalle cercano di approfittare dei suoi favori. La vita scorre sonnolenta e sudata, sorvegliata con buon senso sociale da Calder, lo sceriffo nominato, ovviamente, dal mecenate, da cui viene trattato come un dipendente da ricompensare e blandire e non come imparziale tutore dell’ordine.

Robert Redford, Marlon Brando

La caccia (1966): Robert Redford, Marlon Brando

I pettegolezzi e i tradimenti dominano la vita dei cittadini: il passatempo preferito, oltre che ubriacarsi spudoratamente, sia uomini che donne, sempre in cerca di un diversivo, è andare a letto con il coniuge dell’altro senza minimamente mascherare le intenzioni e i manifesti tentativi di abbordaggio. L’ipocrisia generale domina e il razzismo latente viene a galla ad ogni minima occasione. Su tutto e tutti si erge la figura del ricco Val Rogers, la cui pomposa festa di compleanno, che cade proprio in quel maledetto sabato, accoglie i tanti facoltosi ospiti del circondario, i quali tra l’altro stanziano generosissime cifre per finanziare la costruzione di un college, antico progetto del festeggiato. L’unica vera sua preoccupazione è la lontananza affettiva dal figlio Jake, un vacuo giovanotto maritato e senza figli che vive alla grande grazie alla ricchezza del padre con cui non va mai d’accordo. Ma è dal pomeriggio che circola insistentemente la voce dell’evasione dal penitenziario non molto distante di uno scavezzacollo della città, Bubber Reeves, un giovanotto che la sfortuna e le sfavorevoli coincidenze non sono mai mancate e più di una volta è stato condannato per colpe non sue. Per tutti però è un soggetto pericoloso, a maggior ragione da quando appunto il figlio di Rogers, Jake, sebbene sposato, è divenuto l’amante di Anna, la moglie del galeotto. Tutti immaginano che presto Bubber arriverà in città per vendicarsi, sia del tradimento della moglie che dei torti subiti dai concittadini.

Robert Redford

La caccia (1966): Robert Redford

Paladino della giustizia e della sensatezza è lo sceriffo Calder, unico personaggio moralmente sano, assieme alla sua bella moglie (e sola coppia che si ami) in un panorama di gente che sembra derivata direttamente dal Far West e dall’egoismo imperante. Individui che vanno alle feste, nei bar e nelle strade sempre armati di pistola, pronti a tirarla fuori per gioco e per offesa. Un prolungamento della loro arroganza, del loro egoismo, del senso della proprietà invalicabile. I ragazzi crescono all’ombra della cattiva educazione che ricevono da genitori tanto insensati, affaristi, e li imitano nelle loro cattive abitudini già da subito. In questo calderone bollente lo sceriffo cerca di mantenere un profilo basso, si aggira nelle strade osservando quello che succede senza dare nell’occhio, tanto da rispondere ai bifolchi razzisti “Non sto pattugliando, sto solo cercando un cono gelato.” Dal canto suo, Bubber non avrebbe mai voluto farsi rivedere ma il destino decide per lui e quasi inconsapevolmente sta ritornando, quasi senza volerlo. E non avrebbe voluto: la sua meta doveva essere il non lontano Messico. Quel sabato non è solo l’inizio del weekend, non è solo la sera dei festeggiamenti lussuosi per il ricco boss della città, non è la solita notte di balli e alcol, è la notte della barbarie. Lo sceriffo lo sa, lo intuisce, è all’erta e cerca di porvi riparo, non vedendo l’ora che tutto finisca senza drammi, con il sogno in cuor suo di fare le valigie e andar via con la moglie a vivere in una tranquilla fattoria: quella gente mal lo sopporta e lui ne è cosciente e ricambia. Troppa è la differenza di visione della vita tra lui e quei famelici individui protervi e falsi, ognuno dei quali pensa solo al proprio tornaconto, pronto a voltare le spalle al finto amico che frequenta. Un ambiente dall’eterno sapore fascista piccolo-borghese in cui il machismo degli uomini, servizievoli col potente, si riversa solo verso la fascia sociale più debole, i neri prima di tutto. Sarà così che diventa la notte della giustizia fai-da-te, del regolamento dei conti dove i neri sono i primi a patire, dove l’ufficio dello sceriffo diventa il covo della rabbia, il punto di partenza della fine. Sarà la caccia, o l’inseguimento come dice il titolo originale. L’epilogo è degno di un indecoroso e selvaggio spettacolo da arena, con il gladiatore senza armi contro i leoni, con un torero senza riparo contro il toro inferocito. There well be blood…

Jane Fonda, James Fox

La caccia (1966): Jane Fonda, James Fox

È tra i più belli dei tanti film belli di Arthur Penn, sanguigno e pregno di sentimenti di ogni tipo, corporale e materialistico, accaldato e bagnato di sudore alla pari de La lunga estate calda (Martin Ritt, 1958): la stessa gente, la medesima ipocrisia, l’uguale voglia di sopraffazione e l’identico desiderio di far piazza pulita con le proprie mani. Perfino lo stesso direttore della fotografia, Joseph LaShelle, di cui si trascina la stessa colorazione esaltata. La regia è straordinaria e ci fa vivere in crescendo il susseguirsi degli avvenimenti, nonostante Penn avrebbe voluto un film un po’ diverso quando invece il potente produttore Sam Spiegel (suoi tantissimi i successi di quegli anni) si impossessò dell’opera per farla montare al tecnico che lui preferiva – contro il volere del regista – e lo cambiò a suo piacimento. Tuttavia il film è di una potenza rara, è meravigliosamente coinvolgente, è travolgente dal punto di vista emotivo e il tragico finale arriva a toccare livelli di grande drammaticità da diventare un film indimenticabile. È ambientato in pieno decennio dei ’60 ma pare un classico western che per raccontare la caccia all’uomo dà una chiara rappresentazione esasperata del fascismo della gente comune, diventando in modo inevitabile un mélo amarissimo di grande effetto.

Marlon Brando

La caccia (1966): Marlon Brando

E.G. Marshall

La caccia (1966): E.G. Marshall

La grandezza non è solo di Arthur Penn: è tutto il cast che è all’altezza della situazione, è un elenco di attori che fanno mostra di sé. Il fuggiasco è Robert Redford, il quale nonostante sia l’oggetto del film lo si vede solo all’inizio, per l’evasione appena compiuta, e nel lungo ed esasperato finale. Bravo, ovvio, ma si vede non molto. Sua moglie è Jane Fonda (ma quanti film hanno girato assieme?), il suo amante è l’inglese e allora giovane James Fox, il padre di quest’ultimo, il magnate, era il grande E.G. Marshall, Robert Duvall è un irriconoscibile impiegato di banca mellifluo e senza spina dorsale, non curante della esuberanza erotica della moglie, vera pirata tra i maschiacci della comitiva. La moglie dello sceriffo è la bella Angie Dickinson, perfetta complice dei buoni intenti del marito. Su tutti, quasi a dirlo è superfluo e innocente, si erge l’attore che ha condizionato la recitazione cinematografica del ‘900 e non solo: lui è Marlon Brando. Inutile stare a disquisire se il ruolo dello sceriffo poliziotto era adatto o se era stato scritto pensando a lui, inutile immaginare altri attori, inutile perdere tempo. La sua presenza scenica, il suo modo di recitare era e rimarranno unici nella storia, perché ogni frase, ogni atteggiamento, ogni sguardo danno fremiti, sono scariche elettriche. Quella inimitabile voce quasi gutturale e strozzata emette delle sentenze inappellabili, i suoi personaggi diventano tutti reali e attendibili. Lo sceriffo Calderdiventa l’eroe civile della trama e se lo ricordiamo così è solo per merito suo.

 

Un film immeritatamente dimenticato, perché come questo non se ne fanno che rarissimamente: rivederlo mi ha letteralmente entusiasmato.

 

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