Regia di Eric Rohmer vedi scheda film
Non occorre essere degli esperti in fatto di tecnica cinematografica per capire che questo secondo abborracciato episodio dei Racconti Morali, “la Fornaia di Monceau”, altrettanto misconosciuto quanto il primo, è stato girato con una macchina da presa da 16 mm. con criteri dichiaratamente amatoriali. Ed a nulla è giovato il successivo ingrandimento a 35 mm che non ha fatto altro che evidenziare ulteriormente le svariate pecche congenite presenti fin dalla nascita. Fin da una prima impressione a caldo salta in evidenza agli occhi l’aspetto precario delle condizioni di ripresa, riscontrabile principalmente in un tipo di recitazione alquanto approssimativa o, per meglio dire, sinistramente posseduta da una disarmante velleitarietà che va quasi a lambire il territorio minato della “candid camera”. E se nella ”Fornaia di Monceau” la piena presa di coscienza dei propri limiti tecnici unita ad una certa dose di umiltà e da un impegno fuori dal comune in fase di montaggio è riuscita ad assicurare una buona riuscita del prodotto finale, nel nostro caso l’itinerario creativo dell’autore ha rischiato seriamente di incamminarsi verso un cammino di involuzione a causa di una pretenziosa e disinvolta fiducia nei propri mezzi tecnici, malamente coadiuvato da una sceneggiatura (?) contorta, per non dire anodina, e pregna di permissive ripetitività.
A questo punto il principale motivo d’interesse dell’opera, più che nella sua struttura formale, risiede in alcune similitudini con altri due Racconti Morali ben più importanti, “La collezionista” e “La mia notte con Maud.” Il film è da considerare infatti come una prova generale, ancora più evidente rispetto al primo episodio, dello schema narrativo rohmeriano alla base della serie, che richiede in ogni caso una seduttrice di turno, per l’appunto Susanna, due individui di sesso maschile, Guillaume e Bertrand, dotati di affinità elettive alla stessa maniera di Adrien e Daniel, protagonisti de “La collezionista” ed una figura femminile predestinata presso la quale cercare rifugio, nel nostro caso Sophie.
Tema predominante nell’intero arco della narrazione è da considerare a pieno merito un'osmotica ricerca di denaro, con impatto diretto oltre che sui rapporti interpersonali dei personaggi anche sull’intrinseco svolgimento della storia, che viene strettamente influenzata da alcuni risvolti venati di suspence ma lasciati lettera morta nel finale per precisa scelta, si spera, dell’autore.
Abbastanza superfluo rilevare la totale carenza tecnica dell’opera in questione: bianconero a basso contrasto e dalle sgranature in bella evidenza, sequenze girate a camera fissa, totale mancanza di zoomate o carrellate varie, dialoghi molto spesso improvvisati, personaggi dai volti assai poco espressivi ed un commento interiore, peraltro assai monocorde, che impregna di sé gran parte della narrazione, per non parlare dello stato di totale inguardabilità delle scene d’interni. Dulcis in fundo, Rohmer ci gratifica di uno dei personaggi più sprezzanti e detestabili di tutta la serie, Bertrand, un figlio di papà che gioca a fare il superman, di fronte al quale anche il libertino Jerome del “Ginocchio di Clare” riesce ad esserci simpatico. Ma la patina di misterioso fascino che l’opera sprigiona, anche per il suo carattere di sgangherata estemporaneità, rende il piacere della sua lettura quasi una meta obbligata specie per chi voglia approfondire e penetrare nella sua più intima essenza lo schema narrativo alla base di tutti i Racconti Morali.
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