Regia di Vincente Minnelli vedi scheda film
Il personaggio di Sinatra sta spiegando a Ginnie (una giovanissima ed ammirevole Shirley MacLaine) come lei non riesca a capirlo appieno e pertanto non possa amarlo veramente, ma quest’ultima, osservandolo con grande candore al culmine di un bel dialogo “in crescendo”, gli risponde: “non ho bisogno di comprendere tutto per amare qualcuno”; segue una sospensione di tranciante incisività.
E’ lo snodo cruciale del bellissimo Some came running, il fulcro drammaturgico in cui giungono ad una svolta tutte le dinamiche di tensioni e conflitti, amori ed amicizie, vita e arte, permeate dall’ineluttabile senso di morte che si respira dall’inizio del film. Da quel momento l’opera registra una brusca accelerazione, dipanando l’intreccio verso un irreparabile quanto emozionante baratro finale (felicissima la coreografica musicalità della sequenza dell’omicidio), e portando a compimento la serie di elementi ad incastro abilmente collocati sullo schermo da una regia (quasi) inappuntabile, una messa in scena sopraffina ed ottimi interpreti. La figura di Ginnie decolla letteralmente, lasciando un impronta indelebile e commovente sulla vicenda. Possiamo invece solo supporre che abbondanti quantitativi d’alcool si accolleranno l’onere di lavare in superficie il dolore e i nuovi rimorsi del protagonista, lasciandolo nel tormento di un mal di vivere già solcato da vecchie e profonde cicatrici (anche il Dillert di Dean Martin si è ormai autocondannato).
Si devono riconoscere, ad onor del vero, pure i limiti di una sceneggiatura non sempre ben curata, con diversi raccordi forzati (artificiosa la presunta casualità con la quale tutti si incontrano nei momenti meno opportuni), e con il dispiegamento di sviluppi narrativi affrettati ed inverosimili come l’innamoramento istantaneo di Sinatra per la Hyers (debitore del colpo di fulmine di Robert Stack per la Bacall in Come le foglie al vento, ma senza la medesima efficacia), o il goffo e “puntuale” andirivieni da Chicago del pretendente respinto di Ginnie (una semplice macchietta), entrambi momenti ove s’avverte l’assenza di un’adeguata definizione psicologica. Si tratta di canoni mutuati apertamente dalla tipica diegesi del musical, e tuttavia, riproposti ed applicati alle scansioni temporali del melodramma per l'appunto privi di un’adeguata focalizzazione dei rapporti (o di una mediazione linguistica in grado di armonizzarli al restante corpus quali dissolvenze, ellissi, traslati simbolici), risultano come evidenti difetti di costruzione.
In ogni caso Some came running rimane fra gli esiti migliori di Minnelli, un titolo ispiratore di molte illustri opere a venire, sia per il sapiente mix di atmosfere melò/noir/musical (da Bob Fosse al Marshall di Chicago), sia per le pregnanti caratterizzazioni dei personaggi principali (dal sessantottino Cinque pezzi facili di Rafelson – cit. ed wood - al Manhattan di Allen), innanzitutto per quel tocco cinico e disincantato del protagonista, al tempo stesso attratto e disgustato dal mondo circostante, intellettuale ed ipocrita, e poi per la devozione e l’estremo sacrifico d’amore della ragazza ingenua e pura d’animo (e mi sovviene la Mariel Hemingway alleniana nello splendido alter ego a posteriori di Manhattan ed al magnifico finale, esteticamente riecheggiante il Luci della città di Chaplin, dove non muore ma abbandona suo malgrado il compagno tardivamente ricredutosi). Corsi e ricorsi formali verrebbe da dire, per un film assai più ricco e complesso di quanto appaia ad un primo impatto.
(Ringrazio steno79 per il contributo documentale).
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