Regia di Abel Ferrara vedi scheda film
(Stra)ordinaria storia di abiezione e redenzione
Si può apprezzare o criticare il cinema di Ferrara, così come si può amare alla follia il cinema di Tarantino oppure disprezzarlo. Ma, se per il regista de LE IENE non si può non tenere conto del suo indubbio lato visionario, iperrealistico, la sua visione “ultraista” della realtà, manipolata a piene mani, tutti elementi che costituiscono il suo segno e la sua originalità (discutibile fin che si vuole), per Ferrara bisogna fare un discorso a parte.
Il “segno” qui ha un carattere molto diverso. Anzitutto l’ambientazione. I luoghi preferiti sono i quartieri miserabili della metropoli, i palazzi fatiscenti, gli appartamenti squallidi abitati dalla feccia umana, ma non solo. Ci sono i neri senza più sogni, “latinos”, gli ispanici che si arrabattano alla bell’e meglio, le larve umane distrutte dalla droga, le prostitute che si fanno e battono mattina e sera, i trans che ciondolano su e giù per i marciapiedi, alla ricerca di una dose o di una marchetta, non disdegnando una soffiata alla polizia per essere lasciati in pace.
Se c’è un inferno sulla terra, è qui che va ricercato. Già nel 1929, Garcìa Lorca scriveva : “L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca perché lì non c’è domani né speranza possibile”.(1) Senza futuro né speranza, egli vedeva “gente che vacillava insonne come appena uscita da un naufragio di sangue”.
L’umanità buona, quella che ha avuto la buona sorte di nascere in ambienti diversi, di crescere in famiglie per bene, di studiare e trovare un lavoro onesto, non entra in questi quartieri, rifugge sa essi, un po’ temendo il contagio e un po’ fingendo di non vedere.
Ma c’è una frangia di gente “a posto” che per spirito missionario decide di vivere a contatto con i diseredati, gli umili, i “dimenticati”: sono i sacerdoti, le suore, gli operatori e gli assistenti sociali. Certo, ormai le chiese si svuotano e spesso diventano luoghi di spaccio e stupro, ma, forse, restano l’ultimo segno di civiltà, l’ultimo Fort Apache ormai assediato dalle forze del Male.
C’è infine una frangia che, pur non appartenendo a quel mondo, lo frequenta: sono le forze di polizia.
La cronaca quotidiana, molti libri e i film di Lumet, di Petrie e di tanti altri
mostrano quanto sia profondo il malessere tra coloro che sono tenuti a fare rispettare la legge.
In questo quadro drammatico, si inserisce la storia (per certi versi) emblematica di un tenente di polizia (Harvey Keitel). Abituato a questi ruoli (un po’ per formazione, un po’ per mestiere), l’attore ci offre un’interpretazione sopra le righe in tutti i sensi. Di origini irlandesi, sposato con due figli, il detective è un po’ il ritratto del poliziotto corrotto. Si indovina di lui un passato rispettabile, in cui si combinano una frequentazione religiosa assidua, un’educazione cattolica tradizionale, una discreta sensibilità sociale.
Poco a poco, però, le cose cominciano ad andare male: la quotidiana contiguità con una delle realtà sociali più degradate al mondo comincia a sgretolare la sua fragile corazza morale. Comincia con le scommesse, con ambigue frequentazioni, con le prime trasgressioni, fino a cadere pesantemente in un buco nero da cui non si esce, se non con i piedi in avanti.
Come in quasi tutti i film di Ferrara, il tema dell’abiezione si confonde con quello della redenzione. A fare scattare la scintilla che dà voce alla propria coscienza, lasciata languire per troppo tempo, è il caso di uno stupro, avvenuto in una chiesa, da parte di due teppistelli a spese di una giovane suora.
Agli occhi di un cattolico, questo è un peccato peggiore ancora dell’omicidio. La doppia profanazione avvenuta in un luogo sacro e nei confronti di una persona votata a Dio è un fatto sconvolgente.
Insopportabile perfino per un detective come Keitel, noto negli ambienti dei quartieri malfamati per essere un tossicomane, un corrotto e un pervertito della peggior specie.
Il colloquio con la suora stuprata che rifiuta di fare i nomi dei colpevoli e che prega invece per loro, contro ogni logica ed ogni reazione normale, ha il potere di scuoterlo.
La scossa deve però, necessariamente, per potere essere efficace, contare su una disposizione d’animo disponibile.
E’ lecito quindi arguire che pur nell’abiezione in cui era caduto, continuava a sussistere, seppure in forma flebile, una certa qual coscienza della propria cattiva condotta.
Il pentimento è qualcosa che nei cristiani assume un valore diverso. Il pentimento autentico, sincero e profondo, ha un potere catartico che ha come primo risultato quello di sovvertire in modo radicale la condotta morale fino a quel momento vissuta.
Al pentimento poi segue un atteggiamento tipico del cristiano e cioè quello del perdono. Non ci può essere vero pentimento senza perdono.
Si può discutere sulla scelta di raffigurare la figura del Cristo dolente e sanguinante (scena molto in stile Tarantino, per intenderci)fra i banchi della chiesa dov’è avvenuto lo stupro (che poi si trasfigura nella donna di colore che porterà alla cattura dei colpevoli). Assolutamente autentico, sincero e sentito è invece l’atteggiamento (apparentemente assurdo) tenuto nei confronti dei due giovanissimi stupratori, rilasciati e messi “manu militari” su un autobus, fra minacce, scappellotti e lacrime.
Forse vale la pena ricordare il verso:”Quia apud Dominum misericordia, et copiosa apud eum redemptio”. Si tratta del salmo 130, conosciuto come il De Profundis. La maestosa solennità della lingua latina e la profonda (e poetica)spiritualità di questa preghiera sono corollario essenziale per intendere il significato che sta alla radice di una parabola morale di un uomo che ritrova se stesso e Dio pochi momenti prima del tragico trapasso.
Film duro e cupo, che nulla si risparmia in quanto a brutture e sconcezze di ogni genere, ma sincero ed ispirato. Forse la migliore opera del regista.
(1) Federico Garcia Lorca, La aurora, Poeta en Nueva York, 1929-30.
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