Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Il teorema è quello de L'angelo sterminatore: la borghesia, incancrenita su vizi di forma svuotati di qualunque significato, intrisa di menzogne e divorata dal mostro del capitalismo, finisce col distruggersi da sola in un sordo lamento. Nel film di Bunuel ciò era rappresentato come una sorta di contrappasso dantesco (le stesse formalità si esasperano fino a diventare una trappola mortale dalla quale nessuno dei partecipanti alla cena riesce ad uscire), qui invece il Tristo Mietitore assume i lineamenti di un giovanotto di poche parole bello e spensierato, con due occhioni nei quali è facile perdersi. E se nel film del regista spagnolo l'attacco era indirizzato genericamente alla categoria, in questo caso l'analisi diventa più precisa e metodica (una formula matematica appunto...), rivolta a tutti i membri dell'unità base della società occidentale: la famiglia tradizionale. All'inizio la loro esistenza procede letteralmente in bianco e nero, di una monotonia quasi insostenibile della quale nessuno si accorge (il padre gestisce la fabbrica, la madre intrattiene decorosi rapporti sociali, il figlio frequenta la scuola, la figlia cela la propria sessuofobia e la domestica ostenta austerità), poi arriva l'ospite e nella vita di questo grigio nucleo si accendono i colori, che assumono la connotazione sensoriale del desiderio sessuale: la prima a cedere è proprio la serva (ma sarà anche l'unica a cercare di resistere, arrivando addirittura a tentare il suicidio), poi il figlio, la madre, la figlia ed infine il pater familias (che nel mentre subisce gli effetti di una strana malattia), e tutti quanti sembrano essersi come liberati dai loro schemi, da quella prigione di abitudini in cui per tutta la vita avevano vegetato. Ma questo profeta sessuale non è benevolo: è per l'appunto un angelo sterminatore, che ha voluto aprire loro gli occhi mostrandogli per un attimo la vita che non stavano vivendo, prima che la volgarità di un mondo degenerato (che loro hanno contribuito a creare ed a peggiorare) li divida distruggendoli. Ed è proprio quello che accade nel momento in cui scompare: ogni membro della famiglia diviene consapevole della propria nullità, come un bambino che tocca una fiammella accorgendosi per la prima volta che il fuoco brucia, e nessuno sa come reagire di fronte alla realtà rivelata ("Io non riesco più a riconoscere me stesso, perché quello che mi faceva uguale agli altri è distrutto. Ero come tutti gli altri, con molti difetti forse... miei e del mio mondo. Tu mi hai reso diverso togliendomi al naturale ordine delle cose", "Mi accorgo ora che io non ho mai avuto alcun interesse reale per nulla. Non parlo di qualche grande interesse, ma nemmeno dei piccoli interessi naturali come quello di mio marito per la sua industria o di mio figlio per gli studi o di Odetta per il suo punto familiare. Io nulla, e non so capire come ho potuto vivere in tanto vuoto. Eppure ci sono vissuta. Se qualcosa c'era, un po' d'istintivo amore per la vita, esso inaridiva come un giardino in cui non passa nessuno. Quel vuoto era riempito da falsi e meschini valori"). Questo è il momento in cui comincia la mattanza concettuale, in cui ognuno dei personaggi procede geometricamente verso un finale totalmente deragliato rispetto a quello che il proprio ruolo sociale richiederebbe: la figlia Odetta, dopo un breve momento simil ossessivo, finisce con l'implodere di un desiderio insostenibile che la getta in una catatonia probabilmente definitiva, pietrificata da un esistere castrato ed oppresso; la madre si prostituisce per un puro desiderio perverso d'infangare la propria immagine di casta donna borghese, andando anche con più uomini contemporaneamente (tutti giovani come il perduto ospite); il figlio Pietro diventa un pittore (e chissà perché questa parte mi ha sempre fatto venire in mente Claudio Lolli:"Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista"), regalando una delle migliori riflessioni sull'arte contemporanea mai sentita in un film (e sul concetto di artista:"L'autore è un povero, tremante idiota. Una mezza calzetta. Vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino. Ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola di chi vive degradato dall'impressione di qualcosa di perduto per sempre" quasi un'autocritica). Il padre si spoglia di tutti i suoi averi donando la fabbrica agli operai ed esiliandosi nel deserto, come un estremo marxista, come Siddharta, come Gesù (perché sarà più facile a un cammello passare per la cruna di un ago che a un ricco entrare nel Regno dei Cieli), e le sue grida chiudono il film come un sigillo orrorifico. Ma quella che ha forse il percorso più emblematico è proprio la domestica: da serva a dispensatrice di miracoli, liberata dalle catene per estirpare a sua volta dagli altri la sofferenza, divenendo infine letterale fonte di lacrime che non sono di dolore, ma forse di speranza per un mondo più giusto. Un'opera magistrale, fatta di immagini potenti e di pochi dialoghi estremamente significativi, con un cast azzeccatissimo ed una colonna sonora perfetta, sicuramente estrema nel linguaggio ma ancora straordinaria.
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